Paesi e città

SICILIA

CALAMONACI (AG)

Testo di Giovanni Moroni

Storia
Calamònaci piccolo centro siciliano, vicino a Sciacca, in provincia di Agrigento da cui dista 50 chilometri. Gli abitanti ammontano a 1500 circa. L’abitato sorge a 307 metri d’altitudine, poco distante dal mar Mediterraneo. Confina il suo territorio con: Ribera, Caltabellotta, Cattolica Eraclea, Cianciana, Lucca Sicula, Villafranca Sicula e Burgio. Centro prevalentemente agricolo coltivato a: oliveti, mandorleti, vigneti e in piccola parte seminativo, con una porzione di bosco nel versante del pizzo Canalicchio.

Il nome di Calamonaci è stato ricondotto a diverse etimologie: Nicotra, accogliendo una tradizione popolare, lo fa derivare da “calata dei monaci”, secondo questa ipotesi il terreno su cui sorge Calamonaci sarebbe appartenuto ad alcuni monaci della vicina Caltabellotta, che ogni tanto discendevano (calavano) per attendere alle colture e ai raccolti; Calvaruso lo fa derivare da Kal-at Munach; fortezza di fermata o di sosta; stazione di fermata dove si rilevano i cavalli; Giunta ne identifica il sito con Qal’at ‘Abd al-Mumin; una delle città bizantine ribellatesi alla conquista musulmana dell’860 assieme a Platani e Caltabellotta. Infine Alessio ha sostenuto la derivazione dal greco moderno kalamo, che significa ‘canneto’.

Il paese di Calamònaci nasce nel XVI secolo nel territorio del feudo omonimo. Il suo sviluppo nelle campagne dell’agrigentino situate tra i fiumi Magazzolo e Verdura avviene nel corso di quel ritorno alla terra che caratterizza una parte considerevole della storia economica e sociale siciliana fino agli inizi del XVIII secolo, all’insegna di rinnovati impulsi allo sfruttamento delle risorse agricole e alle strategie demografiche. «Oltre al bisogno di disporre di forza lavoro i feudatari avevano un interesse politico a tenere feudi “nobili”, (popolati da vassalli), poiché questi davano diritto d’accesso e di voto in Parlamento. Perciò, oltre ad acquistare casali abitati, essi chiedevano alla corona la licentia populandi, che conferiva la facoltà di accogliere nei feudi nuovi abitatori».

Il 6 febbraio 1574 il Presidente del regno Carlo D’Aragona concedeva così al barone Antonino de Termini la facoltà di popolare il feudo di Calamònaci. Nell’atto di concessione, oltre al consueto formulario – con l’impegno di incrementare la popolazione, gli edifici abitabili, la produzione frumentaria (da destinare al vicino caricatore di Sciacca), di costruire un castello e le carceri – si accenna pure alle preesistenze in quo alias habitatione fuerat.
Il feudo di Calamònaci confinava a nord con il feudo della Culla (Lucca Sicula), località pizzo Canalicchio, e con il feudo della Salina, a sud con il feudo di Scilinda (Ribera), località trazzera Margio, a est con il feudo della Gulfa ed ad ovest col feudo di Troccoli (Sant’Anna di Caltabellotta) e il fiume Verdura. Alla rettifica del catasto, avvenuta nel 1846, all’antico territorio si sono aggiunti gli ex feudi Gulfa e Donna Superiore che facevano parte del territorio di Caltabellotta.
Giovanni Luca Barbieri, nei suoi Capibrevi compilati nel 1513, fa risalire l’origine del feudo sive casale de Calamonachj al 1296. In realtà troviamo alcune tracce sin dal 1152, in un  documento redatto in lingua araba, riguardante un mandato regio rivolto al Governatore (âmil) di Sciacca, perché portasse a composizione una lite, sorta tra il Signore (sahib) di Calamònaci e i Monaci di S. Giorgio di Troccoli.
La scelta dell’ubicazione della nuova Terra del 1574 è stata forse determinata dalla preesistenza di un altro casale, in quel momento abbandonato; casale che aveva costituito probabilmente il luogo di abitazione di una delle due parti del feudo che nel 1419 Francisca Spallitta ereditò dal marito Giovanni Inveges. Di sicuro avranno però influito sia la comodità di quel sito (lungo la strada che da Caltabellotta conduceva ad Agrigento e s’incrociava con le due trazzere che portavano a Burgio, Villafranca e Bivona) sia la presenza di una sorgente d’acqua (ancora oggi denominata lu Canali e meta, tra l’altro, fino a pochi anni fa, di erogazione idrica giornaliera, luogo di abbeveraggio degli animali e lavatoio).

Dal Barbieri apprendiamo ancora che il feudo sive casale de Calamonachj fu concesso, assieme alla Terra di Caltabellotta, dal Re Giacomo a Berengario Villaragut. Entrambi i possedimenti tornarono alla Regia Corte dopo la successione al trono di Federico, fratello di Giacomo. Lo stesso Re Giacomo, con privilegio del 31 marzo 1296, concesse a Berengario De Spuches il feudo con l’annesso casale, che passarono successivamente agli Inveges, sino al 1419, quando appunto Francesca Spallitta, per la morte del marito, si aggiudicò metà della proprietà, e quindi alla famiglia de Ferrerio e Marinis per matrimonio contratto da Margherita Inveges con Giovannetto de Ferrerio e Marino. Il 30 Giugno 1509 Antonino de Termini s’investì del feudo per donazione fattagli da Bernardino e Giovanna Termini, già moglie di Pietro Sabia.

Successivamente al privilegio viceregio non riscontriamo traccia documentaria o altri segni di vita, forse a causa della peste imperante dal 1574 al 1576, che determinerà anche la dedica della prima chiesa a san Rocco, patrono degli appestati. Dalla documentazione disponibile riscontriamo in effetti che il paese è edificato solamente nel 1577 e non nel 1574, anno della licentia populandi.
Nel 1582 abbiamo le prime notizie degli abitanti della nuova Terra e della presenza d’inquilini provenienti da diverse località: da Corleone i Guarnera, da Burgio i Rabuino e De Pinello, da Palazzo Adriano i De Giorgio, da Sciacca i La Mantia; mentre da Villafranca proviene la parte più cospicua dei nuovi abitanti: i De Xacca, De Grado, De Leo, Fanara.

Dieci anni dopo la concessione della licentia populandi, il figlio del fondatore, Bernardino de Termini e Ferreri, esattamente il 9 luglio 1584, aveva chiesto e ottennuto dal Vescovo Don Antonio Lombardo la bolla di fondazione dell’arcipretura, obbligandosi a erigere una chiesa dedicata a san Vincenzo Ferrer, dotata di una salma di terra, stanziando dieci onze pro fabricanda et Edificanda domo pro preditto Archipresbitero e assicurandone altre dodici per ciascun anno successivo. La chiesa non fu eretta subito; missa e divina officia continuarono a essere celebrati nella chiesa di san Rocco.

Lo stesso Bernardino, il 16 novembre 1585, su concessione del vescovo, fonda il convento dei Padri Carmelitani sub titulo Sante marie annuntiate in ecclesia santi rocci, dotandolo di venti onze per la costruzione dell’edificio e di altre dodici per la sussistenza dei frati. La prima chiesa di san Rocco sarà inglobata dai carmelitani nel blocco dell’edificio conventuale: luogo e culto del “santo della peste”» si avvieranno così a uscire gradualmente dalla scena devozionale del paese che, non senza talune significative ambivalenze, sarà disciplinata attorno alla santità patronale auspicata dai signori del feudo.

Questo stato di cose si manterrà nella sostanza immutato anche quando l’11 settembre 1598, in seguito al fallimento della casa Termini e Ferreri, il feudo di Calamònaci verrà venduto a don Vespasiano de Spuches, il quale otterrà la riconferma viceregia per ripopolarlo nel 1608.

Dal primo rivelo (censimento) del 1593 ricaviamo che la popolazione di Calamònaci ammontava a 140 persone. Il barone de Spuches, successivamente alla conferma viceregia, si preoccuperà di incrementarla, portandola ai 446 del 1607. Nel 1623, sempre dai dati dei riveli, constatiamo la presenza di nuove famiglie provenienti da Caltabellotta (Marino, Montalbano, lo Rizzuto, Augello, lo Vitrano, Matinella, Maniscalco, Sciortino, Mauceri, di Piazza e i d’Angelo), da Burgio (di Michele, la Genca) e da Mezzoiuso (lo Cottitto). Molte di queste dimoreranno temporaneamente a Calamònaci, per trasferirsi nei nuovi centri di fondazione primo-seicentesca: Ribera, Cattolica, Lucca e Sant’Anna. In base a ciò, anche se nel 1681, malgrado le precedenti ondate di peste che avevano colpito tutto il circondario, si era giunti a quota 1013, si assisterà a un’inevitabile flessione demografica, per poi vedere ristabilirsi la curva di crescita. Ciò sin alla fine del XIX secolo (1892) quando inizierà la prima fase d’emigrazione per le Americhe che avrà il suo punto massimo dal 1905 alle soglie della Ia guerra mondiale 1913.

            Conseguentemente all’abolizione della feudalità, luglio 1812, la vita economica di Calamònaci, da secoli monopolio di baroni e di affittuari, si trovò sottoposta alla funzione sociale economica di una struttura politica, quella municipale.  In realtà i municipi iniziarono la loro funzione nel 1820.


Attualmente gli abitanti sono 1395, i primi dati demografici sono 59 (1566), 145 (1593), 446 (1607), 409 (1623), 395 (1649), 782 (1636), 669 (1652), 614 (1713), 980 (1748), 989 (1757), 780 (1798), 751 (1831), 828 (1863), 881 (1875), 1363 (1901), 1513 (1931), 2005 (1951), 1522 (2001).

Arte

La nuova Chiesa Madre, si trova nella parte centrale est del centro storico. I lavori di costruzione proseguirono lentamente in 3 rate successive: I fase dal 1748 al 1757; II fase dal 1795 al 1810; III fase dal 1810 al 1824 anno in cui fu inaugurata.

All’interno è decorata con stucchi da maestranze burgitane Vaccaro e Pisano, inoltre due altari (S. Giuseppe e l’altare maggiore) sono rivestiti con vetri misti decorati.  Degni di nota ritroviamo: il putto- Angioletto che regge l’acquasantiera, in alabastro del XVI sec., autore ignoto, entrando a sin., certamente proveniente dalla vecchia chiesa Madre; la statua di San Giuseppe e Bambino, in legno dipinto del XVIII sec. d’autore ignoto, primo altare a sin., (bastone d’argento proprietà privata, manifattura palermitana); la statua di San Antonio di Padova con Bambino, in legno dipinto e telo del 1817 di Calogero Madracchia saccense, prima nicchia sin.; la tela anime del Purgatorio, XVII sec, d’autore ignoto, di dimensioni 2.50 X 3.00 m., secondo altare sin., cornice della tela delle anime del Purgatorio, in legno - stucco dorato – dipinto di dimensioni 2.80 X 3.50 m., XVIII sec. ignoto, secondo altare sin., (in corso di restauro); la statua del Crocifisso, in legno dipinto, eseguita nel 1878 dallo scultore Vincenzo Genovese (Palermo), terzo altare sin., (corona d’argento manifattura palermitana); la statua dell’Immacolata, in legno dipinto, dorato e laccato, XVII sec., autore ignoto, nicchia a sinistra dell’abside, (corona d’argento ‘800); la statua di San Vincenzo Ferreri, legno dipinto e dorato, XVI sec. ignoto, nicchia sull’altare maggiore, (fiamma d’argento - fiamma d’oro); la statua di San Michele Arcangelo, legno dipinto e dorato, XVII sec. ignoto, nicchia a destra dell’abside, (spada d’argento - campanelle d’argento); la statua di San Giovanni Battista, legno dorato e dipinto, XVII sec., prima nicchia destra, (stendardo - aureola dorata - campanelle d’argento); la statua della B.M.V. Carmine e San Simeone Stok, legno dipinto, eseguita nel 1866 dallo scultore Vincenzo Genovese (Palermo), secondo altare destra, (corone d’argento - 2 abitini); tabernacolo mobile, (in uso nella settimana santa) legno dorato e dipinto, inizio XIX sec.; fonte battesimale, in pietra calcarea burgitana –XVI sec., (in disuso, sistemato in deposito).

VENETO

Cenni storici su ABBAZIA PISANI (PD)

testo di Paolo Miotto

Le origini di Abbazia Pisani si perdono nella notte dei tempi. Situata nella zona delle risorgive del Cittadellese, la località fu meta di frequentazioni databili all’epoca del Bronzo, a causa della presenza di acqua sorgiva perenne a temperatura costante, che favoriva le colture foraggiere e quindi l’allevamento. Durante l’epoca romana, Abbazia Pisani fu inserita nella divisione agraria della centuriazione fungendo da confine fra le due centurie di Cittadella e Camposampiero.

Alcuni ritrovamenti archeologici recenti, ci consentono di datare la presenza romana nella zona a partire dal IV-III secolo a. C. Si evidenzia così una continuità con il passato per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse locali, legate alla pastorizia, con la produzione di lana, e al taglio del legname ricavato dalle estese boscaglie, costituite in prevalenza da ontani, che hanno dato il nome al confinate paese di Onara. In epoca altomedioevale, si formò un piccolo aggregato rurale denominato Villanova, che fu incorporato dalla vicina pieve di S. Martino di Lupari, con l’erezione di una chiesetta campestre intitolata ai santi Pietro ed Eufemia di Calcedonia.

Con l’avvento dei potentati laici di origine germanica dell’XI secolo, la storia della nostra località cambia decisamente rotta. Le famiglie teutoniche degli Ezzelini e dei da Camposampiero, infatti, nel volgere di alcuni decenni, si appropriano di molte cappelle favorendo, verso la metà dell’XI secolo, l’insediamento di un piccolo gruppo di monaci cluniacensi nella chiesa di S. Pietro e S.Eufemia. Il 29 aprile del 1085, la presenza della sparuta comunità benedettina è ufficialmente riconosciuta attraverso una regale donazione di beni mobili e immobili effettuata dai capostipiti delle due famiglie ricordate, che in questo modo riescono non solo ad acquisire prestigio, ma anche a porre sotto protezione pontificia qualcosa come 3.500 campi circa.

La vita dell’abbazia si svolse con una certa regolarità fino al 1444, quando, in seguito alla sopravvenuta morte dell’ultimo abate regolarmente eletto dalla comunità, a Villanova, non rimase più alcun monaco professo. Da quel momento le sorti dell’abbazia presero la strada della Commenda. Il primo abate commendatario fu il nobile padovano Antonio Capodilista. Gli abati commendatari successivi furono tutti vescovi, arcivescovi o cardinali provenienti dalla curia pontificia, i quali nulla sapevano del complesso abbaziale, se non il valore dei proventi economici che dovevano derivare annualmente. La situazione peggiorò progressivamente nel Cinquecento quando venne eletto abate il famoso e potente cardinale veneziano Francesco Pisani. Questi, infatti, ebbe il solo merito di consegnare il proprio cognome alla località che, dalla seconda metà del Cinquecento, fu denominata stabilmente Abbazia Pisani al posto dell’antico toponimo di Villanova.

Terminata l’era del Pisani, le cose non migliorarono di molto, perché i commendatari di turno non avevano alcun interesse a creare un nucleo residenziale di rilievo e tanto meno un’entità spirituale definita. L’unica concessione permessa, e poi osteggiata dal commendatario successivo, fu quella dell’abate Giuseppe Alessandro Furietti che nel 1742 creava una pseudo curazia abatina, salvo poi dover attendere il 1936 prima di poter arrivare all’agognata meta dell’erezione parrocchiale. L’ultimo commendatario morì nel 1772 e l’anno successivo, tutto il patrimonio abatino e l’intero complesso monastico furono incamerati da Venezia, che li rivendette al conte Antonio Meratti nel 1774 per circa cinque miliardi di lire attuali. Da allora, fu tutto un susseguirsi di patroni laici che scorporarono in vari pezzi la tenuta abatina fino ad arrivare al 1936, quando fu possibile creare la parrocchia, grazie alla donazione di una parte degli stabili abatini da parte del giuspatrono Romano Trevisan.

Oggi, Abbazia Pisani, situata in comune di Villa del Conte e in diocesi di Treviso, conta circa 1700 abitanti, che si identificano attorno alla chiesa abatina eretta più di mille anni orsono. L’antica vocazione rurale della località, ha ceduto il passo ai più moderni settori imprenditoriali artigianale e industriale, che hanno profondamente cambiato l’economia della zona. L’associazionismo giovanile, sportivo e del volontariato ha un peso di tutto rilievo nel panorama delle iniziative sociali, e raccoglie l’eredità storica di una tradizione corporativistica che fu tra le prime ad essere fondata in provincia di Padova sul finire dell’Ottocento.

Storia e arte a SAN MARTINO DI LUPARI (PD)

testo di Paolo Miotto

Il comune di San Martino di Lupari si trova nel cuore della provincia di Padova. Dati generali: Cap: 35018, Prefisso: 049, Codice catastale: I008, Codice istat: 028077, Sigla provincia: PD, Numero abitanti: 13.061, Densità demografica: 538 abitanti/kmq, Denominazione abitanti: luparensi o sanmartinari, Superficie: 24kmq, Altitudine: 41m s.l.m., Latitudine: 45° 39’ 0” N, Longitudine: 11° 51’ 0” E, Festa patronale: San Martino di Tour, 11 novembre.

Cenni storici

Origini

Il territorio di San Martino di Lupari fu abitato nel periodo di transizione fra l’epoca del Bronzo Medio (1600-1300 a. C.) e quella del Bronzo Recente (1300-1150 a. C.). Lo testimoniano i resti archeologici del villaggio arginato delle Motte di Campagnalta che fu innalzato fra il XIII e il XII secolo a. C. Nello stesso periodo anche nelle altre località luparensi di Lovari (Via Mottarella) e Campretto (Via Motta Fiorina) si stanziarono villaggi arginati di minore importanza sui quali si sono sovrapposti nel medioevo strutture difensive arginate.

Periodo romano

La presenza romana è documentata almeno dal I sec. a. C. per la presenza d’importanti strade consolari che diedero origine alla centuriazione della zona (Postumia, Valsugana e Aurelia), ma anche di alcuni insediamenti rinvenuti negli anni ’70 e ’90 del Novecento a Borghetto, Campretto, Campagnalta e Abbazia Pisani.
Il territorio comunale di S. Martino di Lupari rientrava nel settore sud-occidentale della centuriazione di Cittadella, nota agli studiosi come graticolato Trans Medoacus.

Epoca barbarica

I Longobardi giunsero in questa zona nel VI secolo d.C provenendo da Treviso tentando di strappare ai Bizantini il territorio padovano. Della presenza dei Bizantini e dei Longobardi rimangono soprattutto tre tipi di tracce: i reperti archeologici che si trovano nelle chiese di Abbazia Pisani e Borghetto e della vicina chiesa di S. Pietro di Castello di Godego. I titoli agiografici S. Eufemia ad Abbazia Pisani, S. Massimo di Cittanova d’Istria a Borghetto, S. Giorgio e S. Nicolò a Campretto e lo stesso S. Martino di Tours nel capoluogo. I relitti toponomastici longobardi sopravissuti come braida e braido.

Il medioevo

Il primo documento che menziona esplicitamente S. Martino di Lupari è un atto di donazione all’abbazia di S. Pietro e S. Eufemia di Villanova (Abbazia Pisani) redatto il 29 aprile 1085. Con questa munifica donazione i capostipiti delle famiglie da Onara e da Romano (Ezzelini) e i da Camposampiero fanno luce per la prima volta sull’esistenza di numerosi villaggi e località nei quali vantavano possedimenti. Nel 1085 il paese è ricordato col toponimo Luvaro e i beni ivi posseduti dalle due famiglie feudatarie confinano con quelli situati a Villa del Conte, Onara, Fontane (Rio Bianco), Tombolo, Galliera e Scandolara (Borghetto).
In Luvaro i nobili donatori possedevano numerose fattorie e latifondi; sedici di queste (massaricias) sono donate alla vicina abbazia assieme ai conduttori e ai coloni che le avevano ricevute in affitto. Fra le chiese campestri donate all’abbazia ve ne sono alcune che in origine erano appartenute alla pieve luparense, ma che nell’XI secolo erano passate sotto il controllo degli Ezzelini e dei Camposampiero.
Il titolo agiografico S. Martino è documentato per la prima volta nella bolla pontificia del 3 maggio 1152, rilasciata dal pontefice Eugenio III al vescovo trevigiano Bonifacio. All’interno del vasto territorio dell’arcipretato luparense dall’XI secolo vi è la presenza monastica cluniacense di Abbazia Pisani, supportata come si è visto dagli Ezzelini e dai da Camposampiero. 

Gli antichi villaggi

Gli antichi villaggi presenti nel territorio di S. Martino di Lupari e il suo arcipretato si possono suddividere in due categorie: quelli che si trovano ancora oggi entro i confini del comune e della parrocchia di San Martino di Lupari e quelli che in varie epoche si distaccarono, divenendo comuni e parrocchie autonome.
Nel primo gruppo rientra il capoluogo distinto fin dalla fine del ‘200 in due diverse località separate dal corso d’acqua del Rio Macello (attuale Viale Europa). Quella a ovest era soggetta a Cittadella e quindi a Padova era detta Padovana, l’altra sottoposta a Castelfranco e quindi a Treviso in direzione est era detta Trevisana; questa divisione rimase vigente fino al 1810. 
Nella porzione della Padovana si trovava la chiesa arcipretale, detta Chiesa Storica, progettata dall’architetto veneziano Giorgio Massari. Custodiva pregevoli dipinti in gran parte restaurati e trasferiti nel vicino Duomo dedicato a Cristo Re. Nella Trevisana vi era la medioevale chiesetta di S. Maria delle Grazie documentata per la prima volta nella metà del Trecento e demolita nell’’Ottocento. A sud-ovest del capoluogo si trova Lovari che nel 1085 possedeva una piccola chiesa dedicata al Beato Leonardo di Lovari. Era sorta presso l'attuale Via Mottarella, in mezzo all'antico terrapieno fortificato (castrum) eretto durante l'epoca del Bronzo e ripristinato nel medioevo quale primo nucleo abitato della località. Nella seconda metà del Settecento però la chiesa era ridotta a un cumulo di macerie. Campretto nel medioevo era il villaggio più esteso, con fortificazione recintata, due chiese e molti abitanti. Dopo la distruzione del villaggio e della fortificazione per opera di Ezzelino III avvenuta nel 1246, perse d’importanza a favore del nascente villaggio di Monastiero. I due antichi oratori erano dedicati a S. Giorgio di Campretto e S. Nicolò. Il primo fu ceduto nel 1155 all'abazia di S. Benedetto Po, e poi all'abbazia di S. Eufemia, il secondo fu distrutto dal Tiranno.  
Campagnalta era detta Campagna di S. Martin. Non ebbe mai nell'antichità un centro di culto proprio e un nucleo residenziale consistente a causa dell’assenza di corsi d'acqua e del precoce acquisto latifondista dei patrizi Gradenigo. In epoca altomedievale vi era la scomparsa chiesetta di S. Colomba sorta sulla Postumia e per la quale anche nel Cinquecento sorsero lotte di supremazia fra il parroco di Galliera e l’arciprete luparense.
Fino al 1425 rientrava nella pieve un gruppo di villaggi che orano formano comuni o parrocchie autonome.
Al primo posto si ricorda l’antico villaggio di Crefanesco che si raccoglieva nella chiesa di S. Giacomo, ancora esistente lungo l'omonima via in località Villetta (piccolo villaggio) di Galliera Veneta. Assorbito dalla vicina contrada di Galliera, questa comunità cessò di esistere nella seconda metà del Trecento.
Galliera (Veneta) menzionata nel 1085 ha avuto per santa titolare S. Maria Maddalena. Nel 1425 i gallierani, uniti agli abitanti di Crefanesco, ottennero l’indipendenza spirituale, preludio di quella temporale, dopo una lunga lotta con gli arcipreti luparensi che fu arbitrata dal vescovo Benedetto Giovanni.
Tombolo nel 1085 passa nella prebenda di Abbazia Pisani con la chiesa dedicata in origine al raro e inconsueto titolo del patriarca Abramo, mentre nel 1152 lo era a S. Andrea apostolo. Si staccò da S. Martimo nel 1425, ma rimase sotto il protettorato di Abbazia Pisani fino al primo decennio del 1607, quando divenne parrocchia autonoma.
Borghetto nel 1085 era suddiviso in cinque piccole località (Scandolara, Burgetto, Isola, Isoletta e Borgo Allocco) e la sua storia era incentrata sull’oratorio di S. Massimo. Inserito nella prebenda monastica di Abbazia Pisani, Borghetto ha acquisito la prerogativa di parrocchia nel 1946 e la sua nuova chiesa è dedicata a S. Giovanni Bosco.
Abbazia Pisani, sede della celebre abbazia di S. Pietro e S. Eufemia di Villanova, ebbe due chiese dedicate ai santi titolari dell’abbazia. Nel 1932 divenne parrocchia staccandosi dall’arcipretato luparense.
Infine è da ricordare il villaggio medioevale di Villa Balda, già pertinenza degli arcipreti luparensi prima che i patrizi Morosini si ritagliassero a Sant’Anna Morosina la loro contea all’inizio del XVI secolo.

I monumenti architettonici e le opere d’arte

Il centro monumentale più antico del paese è rappresentato dalla chiesa storica, che sorge sulle rovine di almeno altri edifici precedenti, tutti dedicati a S. Martino di Tours.
Edificata col concorso della popolazione e l’acribia di tre arcipreti, la chiesa fu progettata verso il 1729 dall’architetto veneziano Giorgio Massari, assieme alla vicina casa canonica – dai più attribuita erroneamente all’architetto castellano Francesco Maria Preti – Il 1 maggio 1774 la chiesa non era ancora ultimata, ma il nuovo arciprete veneziano Antonio Tonati decideva ugualmente di farla consacrare dal vescovo trevigiano Paolo Francesco Giustiniani, rinviando di alcuni anni la conclusione dei lavori. Alla fine il risultato fu grandioso: sei imponenti altari di marmo bianco campeggiavano sulle cappelle laterali della chiesa ad aula unica, mentre nel presbiterio troneggiava il grande altare policromo alla romana, circondato dal coro ligneo. Nel nuovo edificio furono preservate e custodite le principali opere d’arte scultoree e pittoriche del Seicento, come la statua marmorea di S. Antonio col bambino Gesù del 1669, realizzata da Domenico Sartorio. Nel Settecento furono commissionate importanti opere pittoriche a valenti artisti come Giuseppe Nogari, Jacopo Guarana, Domenico Fedeli detto il Maggiotto, Francesco Zugno, Pietro Antonio Novelli e il figlio Francesco, che dipinse i 12 ritratti degli arcipreti luparensi che ressero la pieve dal 1564 al 1784.
Grandioso e pregevole è anche l’imponente affresco policromo presente nel soffitto della chiesa, eseguito dal bellunese Gaspare Diziani verso il 1750, opera che è stata restaurata e recuperata da alcuni anni. Durante l’Ottocento furono eseguite altre pale, di minore pregio delle precedenti, e in seguito alla demolizione dell’oratorio della Madonna delle Grazie fu trasferita nella chiesa anche la quattrocentesca statua lignea della Vergine con bambino. All’esterno della chiesa si trova il campanile seicentesco, più volte restaurato, che custodisce l’orologio costruito dal bassanese Bartolomeo Ferracina nel 1734.
A poche centinaia di metri dalla chiesa storica si trova il duomo romanico, intitolato a Cristo Re e a S. Martino vescovo di Tour, progettato negli anni Venti dall’architetto Candiani e consacrato ne1958. Fra i capolavori di maggior pregio spiccano gli affreschi di Bruno Saetti realizzati nella cappella del Sacro Cuore nel biennio 1942-44 con l’ausilio del pittore locale Ulisse Salvador e quelli del veronese Pino Casarini, eseguiti nella cappella del Crocifisso nel 1949. Pregevoli sono i mosaici eseguiti dall’artista Angelo Gatto: grandioso e imponente quello del catino dell’abside; delicati sono, invece, i 14 quadri della Via Crucis collocati sulle pareti, graffiti e i chiaroscuri presenti nella cappellina della Madonna delle Grazie e il mosaico che ritrae il vescovo Carlo Agostini.


La civiltà veneziana a VILLA DEL CONTE (PD)

testo di Paolo Miotto

La civiltà veneziana di Terraferma, con i suoi quasi quattro secoli di storia, ha lasciato un ricco patrimonio storico, artistico e culturale, ancor oggi ben riconoscibile in molte località. Gli elementi che accomunano la presenza della Serenissima in Terraferma, sono rappresentati spesso dall’acqua e dalla viabilità, si tratta di due fattori d’interesse primario per l’economia e lo sfruttamento agricolo del territorio che anche a Villa del Conte hanno avuto il loro peso.

L’attrazione esercitata dal fiume Tergola nei confronti del patriziato veneto è d’antica data, infatti, almeno dal Trecento si riscontrano interessi economici in zona, tuttavia è dal secolo successivo che la “conquista” comitense da parte della nobiltà veneziana si fa più rilevante. Il fiume, infatti, permette spostamenti rapidi e poco dispendiosi delle mercanzie, ma soprattutto l’attivazione di vere e proprie imprese economiche legate all’acqua, come i mulini, i folli da panni, le pile da riso e i magli per il ferro. I terreni perennemente umidi a causa della linea delle risorgive sono poco fertili, ma proprio per questo più economici da acquistare e adatti agli investimenti considerati a rischio, come la coltura del riso, un cereale particolarmente pregiato e redditizio, seppure avversato dalle autorità venete, che avrà molta fortuna a Villa del Conte e nei paesi limitrofi fino all’Ottocento.

La presenza veneta nella Terraferma si può “leggere” almeno su due differenti registri: la trasformazione del territorio (strade, canalizzazioni, ripartizioni agrarie, sfruttamento delle zone boschive e dell’energia idrica), che il più delle volte passa inosservata, pur rappresentando la vera “rivoluzione” storica ed economica del paesaggio; l’edificazione di palazzi signorili e ville dominicali, che rappresentano indubbiamente l’aspetto più evidente, anche se non il più rappresentativo, della periodo veneziano.

Il breve excursus cronologico che segue, si sofferma sui palazzi nobili presenti in paese, ricordando che quelli rimasti sono solamente una parte degli edifici dominicali esistiti nei secoli passati. I più antichi palazzi dominicali veneziani presenti a Villa del Conte sono quelli fatti edificare dalle famiglie Dolfin e Morosini. Il primo edificio è documentato fin dal primo Cinquecento con l’aggettivo “dominicale”, ed è da ascrivere molto probabilmente a Girolamo Dolfin, che lo circonda con 17 campi adibiti a frutteto e cortile. Sappiamo che accanto a Girolamo, negli stessi anni era presente in paese un altro ramo familiare, rappresentato da Piero e Alvise Dolfin, che possedeva ben 400 campi. Fra la seconda metà del Quattrocento e il secolo successivo, i vari rami Dolfin riescono a monopolizzare, con i loro acquisti, tutto il centro di Villa del Conte e oltre, entrando in possesso anche dei pochi esercizi pubblici esistenti. Per rendere ancora più ufficiale la loro presenza, i Dolfin fanno affrescare la facciata del palazzo rivolta verso la strada e danno esecuzione all’oratorio intitolato a S. Nicolò, che si trovava dove fino a poco tempo fa esisteva la farmacia del paese. Il 30 maggio 1835 Leonardo Dolfin lascia definitivamente il paese alienando tutte le sue proprietà all’emergente famiglia degli Zara.

I Morosini sono documentati con proprietà a Villa del Conte fin dalla seconda metà del Quattrocento, mentre il loro palazzo (ora Carlon) è documentato fin dal 1509. Negli stessi anni un ramo della famiglia, detto della “Tressa”, si spostava a Sant’Anna (Morosina), dove istituiva una vera e propria contea grazie alle concessioni del signore di Cittadella Pandolfo Malatesta. La potenza economica raggiunta dai rami familiari comitensi e di Sant’Anna e incredibile, tanto che all’inizio del ‘600, nella sola Villa del Conte, i Morosini erano proprietari di oltre 500 campi, monopolizzando assieme ai Dolfin la quasi totalità del paese e gli stessi abitanti del luogo. Dopo tre secoli di potere indiscusso, anche Morosini lasciano il paese all’inizio del XIX secolo cedendo gran parte delle loro sostanze ai Calbo Grotta.

All’inizio del XVII secolo giunge in paese anche la famiglia dei Lion, che si fa erigere il palazzo in prossimità del settore orientale di Palazzo Morosini, assieme all’oratorio ancora esistente dedicato ai santi Pietro e Paolo. Purtroppo il palazzo, che fu abitato anche dal vescovo di Ceneda Pietro Lion, passò prima ai Calbo Grotta e in seguito, verso il 1826, al nobile Vincenzo Venier che lo declassò al rango di “uso rurale”, provocandone la successiva demolizione.

Sul versante orientale del paese si trovano altri due edifici dominicali: Palazzo Sanudo, poi divenuto Rezzonico, Foscarini, Piacentini, e Palazzo Tommasini-Zara-Todesco. A dispetto delle apparenze, Palazzo Sanudo non è un edificio antico, essendo stato realizzato poco prima della metà del Settecento per volontà dei coniugi Francesco Sanudo e Maria da Mosto. Il primo documento che testimonia la sua esistenza, infatti, risale al 1748, quando il vescovo vicentino autorizzava l’erezione di un oratorio privato annesso all’edificio. Fra il 1826 e il 1836 il palazzo era ceduto ad Elisabetta Foscarini e nello stesso secolo passava ai Piacentini, quest’ultimi lasciarono l’edificio alla parrocchia di Villa del Conte, prima della definitiva alienazione a privati.

Nelle vicinanze si trova Palazzo Tommasini-Todesco, nella versione attuale è un fabbricato riedificato verso il 1891 dalla famiglia Zara, dopo che n’era entrata in possesso all’inizio dell’Ottocento decidendo l’abbattimento del precedente edificio settecentesco.

Gli ultimi due edifici dominicali da ricordare sono quello semidistrutto dei Pasqualigo in località Sega e il grandioso complesso edilizio che si trovava ad Abbazia Pisani. Quest’ultimo era stato fatto innalzare dai padovani Capodilista nella seconda metà del ‘400, in località Restello, divenendo la sede della contea Capodilista-Soranzo fino al XIX secolo, quando gli eredi Emo-Capodilista cedettero la proprietà che, verso il 1910, fu adibita a cava di materiali da costruzione.




Lettori fissi