Visualizzazione post con etichetta Saggio n° 04 Suor Maria Novello: una monaca dannata per passione. Mostra tutti i post
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giovedì 30 giugno 2011

Paolo Miotto
Una monaca dannata per passione o per suggestione diabolica.
Suor Isabetta Novello da Castelfranco Veneto,
da Una storia castellana al femminile. Il monastero domenicano di S. Chiara e del Redentore a Castelfranco Veneto (1602-1808), Castello di Godego 2010, pp. 78-102.


Fra le famiglie benestanti di Castelfranco che ebbero rapporti costanti col monastero, si distingue quella dei Novello[1]. Questo illustre casato non aveva perso tempo a ritagliarsi una posizione di rilievo all’interno del monastero domenicano di S. Chiara e del Redentore, assumendone la protezione tramite avvocati, notai e influenti presenze nelle istituzioni del governo cittadino.
Una delle monache più stravaganti di questa famiglia fu suor Maria Isabetta. La vicenda di questa monaca, vissuta nella seconda metà del ‘600, rappresentò per Castelfranco un caso umano e religioso controverso che, citando il Manzoni, nacque da una vocazione impostale.
Maria Novello nasce a Castelfranco il 31 luglio 1640 dall’Eccellentissimo Signor Paulo Novello et dalla Signora Gieronima [Zanolli] sua moglie e riceve il battesimo il 6 agosto col nome di Maria Isabetta. Quintogenita di otto figli, aveva visto morire in tenera età almeno tre sorelle e il fratello primogenito, vivendo l’infanzia con le rimanenti sorelle e l’unico maschio Alessandro Giovanni Battista.
Maria era la discendente di uno dei tre rami Novello che vantava una schiera di notai e ufficiali della comunità. Il nonno Alessandro, che aveva sposato la veneziana Francesca Vavra, era notaio come il padre, e aveva ricoperto per otto anni la carica di sindaco di Castelfranco. Il prozio Giovanni Battista era un famoso pittore guerriero che amava dimorare nel podere di Ramon di Loria. Il padre Paolo era dedito all’arte del notariato come i parenti, senza trascurare la vita politica della città. Viveva nella parrocchia di S. Liberale in un palazzo posto nelle vicinanze della vecchia chiesa romanica.
E’ qui che nasce Maria, ma trascorsi i primi anni con le sorelle sotto l’occhio vigile del padre, che aveva già deciso il destino dei figli, Maria è costretta ben presto ad abbandonare quel mondo per essere avviata al monastero con la sorella Antonia Geronima.
Il monastero domenicano non doveva essere un ambiente del tutto nuovo a Maria che vi entra giovane a spesa, cioè come educanda, ma destinata alla monacazione. Qui Maria e la sorella maggiore Antonia Geronima furono educate dalle due zie monache. Maria Isabetta mantenne il suo primo nome da religiosa, mentre la sorella prese il nuovo nome di suor Paola, probabilmente in ossequio al padre.
Il cammino delle Novello è però destinato a dividersi presto perché suor Paola entra in monastero per prima e si adatta alla condizione claustrale senza problemi. Suor Maria, al contrario, la raggiunge qualche tempo dopo, ma non riesce a darsi pace e progetta la fuga. Prova ne è che nell’agosto del 1660 è registrata una spesa di 6 lire datti per nolo di cavali per cercare la detta suor Maria Novella. La monaca era scappata dal monastero diretta chissà dove.
L’evasione durò poco perché nello stesso mese furono datti per una Saradura e Tolle et fattura per la prigion per suor Maria 56 lire. Ecco quando e perché il monastero si dotò della prigione, che fu ad uso esclusivo della Novello, poiché fino alla soppressione del monastero sole lei vi entrò per due volte: la prima nel 1660, la seconda nel 1689.
Obbligata contro voglia nell’austero ambiente claustrale, lo spirito della monaca s’inasprisce sempre più a contatto con le compagne d’infanzia poste nel cenobio in attesa di raggiungere l’età del matrimonio. Per dirla col Manzoni, Maria si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava. E l’odio si trasforma presto in rabbia, desiderio di vendetta, sgarbi, violenze fisiche e morali nei confronti delle consorelle.

Desiderio di libertà

Per sopravvivere Maria cerca di ricrearsi all’interno del monastero un mondo particolare fatto di prevaricazioni e trasgressione delle regole: quello che non poteva vivere con la comunità, cerca di ricomporlo nella propria cella per ricreare qualche parvenza del palazzo paterno. Non bastando nemmeno la cella, volle mantenere vivi ad ogni costo i contatti con la città perduta: un mondo frenetico, rumoroso e ricattatore, disposto a proteggerla in cambio di regali costosi, ma non a donarle quell’attenzione e quell’affetto che forse le erano sempre mancati.
Inizia per suor Maria un percorso imprudente destinato a durare molti anni. Per i suoi scopi aveva bisogno di molto denaro per garantirsi le visite frequenti dei nobili protettori e dei membri della borghesia castellana. Il suo vitalizio di appena 6 ducati annui non era sufficiente allo scopo. Per questo motivo, noncurante dei voti di povertà e obbedienza, aveva iniziato a rubare tessuti all’interno del monastero per ricavarne lenzuola, camice di pregio e vesti per adulti e bambini.
Li confezionava nel segreto della sua cella e li rivendeva in città con la complicità di donna Orsolina Revendrigola e altre sconosciute. Il denaro raccolto era investito in prestiti usurai tramite il fedele contadino Tomio da Ramon e il ricavato serviva per acquistare regali preziosi: fiori d’oro e vasi impreziositi da gemme e perle che faceva confezionare a Vicenza, spendendo anche 150 ducati per volta. Li regalava a nobili castellani definiti nel processo suoi protettori, ma anche a don Vincenzo Cesari, parroco di Campigo dal 1665 al 1688 e ad altre persone che non temevano di presentarsi mascherate e travestite al parlatorio per non farsi riconoscere.
La situazione è destinata a rimanere sepolta fra le mura della clausura per ben quattordici anni grazie alle connivenze dei protettori, finché, il 18 gennaio 1689, il vescovo di Treviso Giovanni Battista Sanudo giunge di proposito in visita pastorale nel monastero. La nuova priora suor Giustina Zaghi s’era, infatti, premurata di inviare al presule una lettera accompagnata da un fagotto fatta pervenire alla superiora da una persona anonima.

L’indagine vescovile (18 gennaio 1689) e l’interrogatorio delle monache

L’istruttoria ha inizio martedì 18 gennaio 1689, alla presenza del cancelliere Giacomo Palazzi, del promotore fiscale Pietro Novello e del primicerio e vicario episcopale mons. Marco Agazzi, nipote di Alessandro VIII e vescovo di Ceneda dal 1692 al 1710. In un solo giorno il vicario interroga nel parlatorio venticinque delle ventisette monache presenti. Rimangono escluse l’inferma suor Ottavia Piacentini e la Rea suor Maria Isabetta Novello.
La prima a essere interrogata è la priora Giustina Zaghi. Dopo aver informato il visitatore che la comunità segue la regola di S. Agostino e di S. Domenico ed è composta da ventisette monache da ufficio, due professe e otto converse, assicura che nulla vi è da eccepire sulle consorelle, fatta eccezione per la presenza di suor Maria.
La priora inizia la storia raccontando l’ultimo episodio in ordine di tempo che ha per protagonista la monaca. Il fallito tentativo di bastonare il medico, avvenuto con la complicità di due converse nel dicembre del 1688.
L’attentato fallì per l’intervento della priora che fece avvertire il vescovo. Da quel momento il medico si rifiutò di ritornare nel monastero. L’episodio colpì tutta la comunità e fece venire a galla tutto il mondo sommerso fatto di angherie e ruberie perpetrate dalla Novello negli ultimi quattordici anni. Ormai la paura s’era impadronita di tutte le monache che confidavano in qualche cambiamento dopo la nomina della nuova priora.
La superiora dichiarava che con l’arrivo della Novello erano iniziati i problemi nel monastero. Erano stati rubati molti oggetti – da poco suor Maria era stata scoperta con un fagotto che occultava otto camicie pronte da vendere – e la ribelle minacciava continuamente le consorelle con parole pesanti e volgarità giornaliere. La superiora si rifiutava di ripeterle al vescovo ch’io m’inoridisco a dirle, anche se nessuno l’aveva mai sentita bestemmiare e spergiurare. Da un calcolo accurato risultava che negli ultimi quattro anni aveva rubato 70 camicie e 17 lenzuoli de canevo e il convento rischiava la chiusura per le conseguenti perdite economiche. Inoltre nella sua cella possedeva molte cose di più delle altre, e particolarmente Quadri con soazze d’intaglio indorate.
La vice priora suor Laura Languidis, da quarant’anni nel monastero, racconta che la Novello non accettava alcuna osservazione e si accaniva sulle consorelle, colpevoli di non accettare le sue angherie, in particolare con suor Chiara Brazzalotto. Era noto l’uso arbitrario del denaro che ricavava dalla vendita abusiva di camicie che confezionava, rubando lenzuola e altri tessuti dal dispensario. Saltava le ore di preghiera comune, non rispettava il silenzio, non si pentiva pubblicamente in capitolo ed è incorreggibile.
L’anziana suor Giacinta Zaghi, che si trovava da 60 anni in monastero, dichiara apertamente di temere la Novello e di fuggire quando posso inorridita dal fatto che la suora non si comunicava dal giorno del Rosario e teneva nella sua cella vari quadri profani con le soazze dorate.
Suor Chiara Brazzalotto, da 53 anni in monastero, è indicata dalle consorelle come la vittima preferita dalla Novello perché ha la cella limitrofa all’indagata. Secondo la sua testimonianza oltre ai mobili sconvenienti d’intaglio, careghe di nogara intagliate e quadri con fiori et sante di grave scandalo, l’inquisita non si faceva scrupolo di minacciare le consorelle dicendo frequentemente tra le altre cose di ammazzarle, di abbruggiare il monasterio, di attossicarle [...] poi grida, e strapazza le compagne dell’obbedienza, e le malate stesse, et il medico. Ammonita più volte dalla priora, ha minacciato e strapazzato chi gl’ha fatto l’ammonitione sino nella vita. La monaca chiude l’interrogatorio dichiarando che l’imputata ha dismesso il buon uso di dimandar sua colpa con accusa de falli particolari, come si faceva avanti, e commanda la Regola.
Suor Caterina Preti, da 47 anni in monastero, ribadisce le asserzioni delle consorelle. Aggiunge che oltre alla biancheria ogni 3° giorno manca delle mobilia in monasterio, inoltre vi era una gestione poco oculata delle doti conferite dalle professe perché in alcuni casi i parenti preferivano trattenere il capitale e versare alla camerlenga solo i periodici interessi.
Le tre monache di casa Riccati (Caterina, Candida e Maria Geronima) lamentano infrazioni al voto di povertà per i doni di fiori d’oro e perle, che la Novello regalava a chi voleva nel parlatorio. L’accusano di intrattenere rapporti con persone estranee al monastero, prestare denaro ad usura ricavando 100 denari de’ piccoli d’interessi da Tomio da Ramon, di avvalersi della complicità di dona Orsolina per smerciare certe camisette con notabile pregiudicio per quello si ricava dalla sua Biancheria. Suor Maria Geronima in particolare si sofferma sul clima di terrore instaurato da suor Maria nel monastero perché tutti vivono con gran spavento, anzi che le monache si guardano di caminar sole e per amor di Idio che si rimedii acciò non venghi così malamente dispensata la robba del monasterio, altrimente deventaremo in poco tempo senza biancaria. La monaca arriva persino al punto di paventare che le monache spaventate, se venisse fuori di prigione, dubitando di peggio, minacciano di voler uscir dal monasterio, et andar alle proprie Case.
Suor Vittoria Preti, monaca da 28 anni, ricorda doni di vasi con fiori di seta, oro e perle senza permesso della superiora e lo scandalo della cella diversa da quella di tutte le altre monache, assolutamente in contrasto con le regole di clausura. Di recente aveva donato due vasi di fiori di seta, d’oro e di perle a una nobile veneziana, del valore di 100 ducati. Ritiene di poter affermare che almeno il voto di castità non doveva averlo infranto ed esprime un pensiero rivelatore sulla percezione che la Novello aveva della propria condizione di monaca: pretendendo vanamente che la sua professione sia nulla.
La veneziana suor Margherita Bertoldi, da 36 anni nel monastero e addetta alla portineria, racconta di aver rischiato la vita. Riferisce al delegato vescovile: mi è successo alcuni giorni sono che [la Novello] mi volsi dare con cortello su la testa e poi per farmi dispetto andò nella mia cella, e mi rovinò e buttò in pezzi alcuni Pitari di viole. Quand’era drappiera, dodici anni prima, le erano spariti due paia di lenzuoli e la priora suor Chiara Brazzalotto era riuscita a far ammettere alla Novello che ne aveva ricavato camicie da vendere.
La quarantaseienne suor Serafina Languidis precisa che la Novello si recava a recitare l’ufficio in coro e a pregare in refettorio non più di sette volte l’anno, mentre doveva farlo tutti i giorni. Si confessava e comunicava tre, quattro volte l’anno. Tanta negligenza derivava dalla noncuranza, ma anche dal fatto che per riuscire a confezionare l’abbigliamento da vendere, doveva trascorrere molto tempo a cucire. A differenza delle consorelle, la Languidis è persuasa che le chiavi del Portone de’ fuori siano mal conservate, lasciando intendere che suor Maria non osservava del tutto la clausura. Minaccia sempre le monache con volerle attossicare, voler dar fuoco al monasterio, et ingiuriar tutte le monache e tal volta si viene anche a’ i fatti. Del venire alle mani suor Serafina ricorda due episodi dei quali fu testimone. Il primo la riguarda in prima persona: a me m’ha dato un tovagliolo nel mena mano mentre eravamo in Refettorio nell’ingratiamento. Il secondo interessa suor Margherita Bertoldi che prima è pesantemente offesa, anche riguardo i suoi parenti, e poi attaccata dalla Novello che gli ha voluto dare un cortello ne la testa.
Suor Virginia Zorzato, da 27 anni in monastero, afferma di aver visto la Novello nel coro e nel refettorio solo nelle solennità. L’ultima volta che la ribelle si era comunicata risaliva alla festa del Rosario e in quell’occasione disse alla priora che credeva d’haver fatto un sacrilegio per essere piena di rabbia, in ogni caso sempre brava, strepita, et ingiuria le monache. Richiesta del contenuto di queste offese, suor Virginia risponde: le parole sono ingiuriose, infamatorie, sporche, et obscene. I dispetti erano frequenti e la Zorzato ne racconta uno di singolare: una mattina in Coro [si] levò i moccoli impricciati [dal naso], e li tirò per dispetto dietro le monache li detti moccoli impricciati, e ciò per scusa di un poco di fummo che andò alla sua banda a causa di una candela spenta male dalla sagrestana suor Francesca Franceschi che la mattina dopo – ne l’hora di disnar – fu aggredita dalla Novello. Interrogata sulle intenzioni della comunità monastica risponde senza mezzi termini: o lei o noi per la salute delle anime nostre.
Suor Angelica Barbarella, giovane monaca di 38 anni, è meravigliata dal fatto che la Novello si presenta in refettorio solo per mangiare, mai alle benedizioni e ai ringraziamenti previsti dalla regola domenicana. La prigioniera si era scontrata il giorno di S. Giovanni con suor Virginia Zorzato affermando che li vuol tagliar il naso perché essa ha il naso in parte longo [...] che pare che il demonio la inciti. Era stata informata dell’assalto notturno a suor Maria Brazzalotto: fece tanto streppito col buttar scagni nel muro o’ paredo [...] che fu di gran scandalo in quella parte del dormitorio, ma si consolava di dormire in altra parte, e lontano dalla Novello. Il danno d’immagine al monastero però non si era potuto fermare l’affare del medico era stato spifferato in città e il resto era stato spiattellato dal nobile Lorenzo Piacentini con sua moglie, et altre gentildonne e altra gente che erano presenti alla scena del fallito attentato in parlatorio, in soma un gran scandalo. La monaca esorta il vescovo a risolvere la questione perché più tosto che sentir quelle fauci d’Inferno, mi contentaria di star [nelle] preggioni, o’ andar Capuccina.
Suor Elena Parisotto, indicata come vittima e nello stesso tempo protettrice della Novello, si trova in monastero da ventiquattro anni pur avendone solo trentasette. Alle domande risponde in modo evasivo, asserendo spesso di non saper cosa dire.

La sentenza

Il giorno successivo, di fronte al capitolo monacale riunito, il vicario Agazzi dopo aver elencato le colpe della Novello, pronunciava la seguente sentenza a nome del vescovo:
Che suor Maria Novella vadi nella carcere del monasterio o’ in altro luogo loco Carceris, sicuro, serrato, et ciò per comando di santa obbedienza; alche se non volesse temerariamente obbedire, sii sforzata, et vi stia sino ad’altra provisione, et ordine di Monsignor Vescovo Reverendissimo sudetto, ne’ da quella possi uscire per qualsivoglia causa, neanche per brevissimo tempo; incaricando la madre Priora di tenere le chiavi della Priggione ben custodite, ne’ permettere che alcuna monaca si accosti alla medesima fuorché, quella che sarà da lei deputata per somministrargli il Vito, e le cose necessarie. Dichiarando inoltre che se qualche monaca si accosterà a’ ditta Priggione, o’presterà favore, agiuto in qualsivoglia modo a’ ditta suor Maria Novella per atione della stessa si intendi morta nella pena d’essere Lei serrata in cella a’ benepalcito di Monsignor illustrissimo, et reverendissimo vescovo medesimo. Comandando finalmente che li quadri con soazze doratte che sono nella cella di suor Maria Novella siano portati nella Chiesa esteriore del monasterio, et li altri mobeli della medesima siano salvati a parte dalla madre Priora, e tutto ciò provisionalmente sino ad altra risoluzione, che piacesse fare al detto Monsignor Illustrissimo, et reverendissimo vescovo.
Suor Maria Novello finì dritta nel carcere del monastero, probabilmente accompagnata a forza in attesa che la severa pena e il cappellano del monastero riuscissero a domare la religiosa, farla rinsavire e riprendere il normale stato di vita claustrale dopo una pubblica ammissione di colpa in refettorio e una lettera al vescovo. Fu tutto invano e il cappellano don Piero Pulcheri fu costretto a scrivere al vicario vescovile: riscontro un’insuperabile difficoltà. Questa è la ferma, anzi dura risolutione della Madre Suor Maria Novello di non voler accostarsi alli Santissimi Sacramenti; se prima udita dal prelato non viene dichiarata inscente, e liberata dalla presente mortificatione.
Non restava che cacciarla da castelfranco e trsferirla altrove. Ma dove fu relegata, i documenti non lo dicono.


[1] Testo riadattato da P. Miotto, Una storia castellana al femminile. Il monastero domenicano di S. Chiara e del redentore a Castelfranco veneto (1602-1808), Castello di Godego 2010, pp. 78-102.


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