giovedì 30 giugno 2011

Paolo Miotto
120.322 sangiorgesi emigrati in 130 anni
da 130 anni di migrazioni a San Giorgio in Bosco, pp. 187-232

La storia dell’emigrazione sangiorgese – interna e verso l’estero – che riguarda il periodo 1875-2005 registra numeri da capogiro e inimmaginabili all’inizio di questa ricerca.
Dai registri e dai censimenti esaminati risulta che l’emigrazione ufficiale permanente verso l’Italia – compresi i movimenti dovuti ai matrimoni – annovera 18.168 persone e verso l’estero 1.970. L’immigrazione dall’Italia e dall’estero, invece, nello stesso periodo coinvolge 13.427 persone. Il saldo negativo di 6.711 individui è recuperato grazie al maggior numero di nati (17.498) rispetto ai morti (7.903).
Da questi dati ufficiali il Comune di San Giorgio in Bosco avrebbe avuto un aumentato di 2.884 abitanti dal 1875 al 2005. Dall’anagrafe del Comune di S. Giorgio in Bosco risulta invece che l’incremento è stato solo di 2.700 persone nei 130 anni considerati. Gli abitanti erano 3.345 al 1 gennaio 1875, sono 6.045 al 31 dicembre 2005.
Mancano all’appello 184 persone.
Lo studio analitico dei documenti ha permesso di recuperare i 184 emigrati all’estero che mancano all’appello e che vanno aggiunti ai 1.970 sangiorgesi cancellati regolarmente dall’anagrafe municipale.
Pertanto il numero complessivo dei sangiorgesi emigrati all’estero dal 1875 al 2005 è di 2.154 individui. A voler essere più precisi si riscontra che l’anagrafe comunale ha censito nei 130 anni considerati solamente 1.322 emigrati all’estero. I rimanenti 648 sono stati rintracciati in occasione dei periodici censimenti nazionali.
Questo significa che l’8,5% dell’emigrazione sangiorgese verso l’estero non è mai esistita ufficialmente per l’anagrafe comunale. A questo dato si deve aggiungere un altro 30% di emigrati all’estero rintracciati solamente in occasione dei censimenti.
Per spiegare la cosa si possono formulare alcune ipotesi: o ci troviamo di fronte ad un fenomeno di emigrazione clandestina di vaste proporzioni o è prevalso un atteggiamento di non curanza cronica nei confronti del fenomeno da parte dell’anagrafe comunale o, come appare più probabile, le due ipotesi accennate si sono verificate entrambe inglobando anche una serie di errori nei conteggi.
Queste aride cifre dimostrano che il fenomeno emigratorio di San Giorgio in Bosco ha riguardato più di 20.000 persone, 20.322 per la precisione, senza contare tutti quelli, e forse sono i più, che sono stati protagonisti di una migrazione temporanea.
Se poi proviamo a sommare tutte le parti interessate dai processi migratori sangiorgesi – emigrazione ed immigrazione – nel periodo considerato, si ottengono 33.749 spostamenti permanenti.
E’ la prova inconfutabile che la storia di S. Giorgio in Bosco, estendibile senza problemi anche ad altre entità territoriali, è il frutto di processi migratori e che la tanto decantata identità locale altro non è che un crogiolo di vicende ed esperienze, nel quale si sono fuse le storie di chi partiva e di chi arrivava.
Nessuno è rimasto immune da questo fenomeno, nemmeno le poche famiglie benestanti che sono rimaste in paese più di un secolo, perché a loro volta hanno dovuto confrontarsi con un processo demografico in continuo mutamento.
Questo imponente fenomeno migratorio paesano si è plasmato attraverso i due spostamenti opposti, determinati dalle partenze e dagli arrivi.
L’emigrazione interna verso altri paesi italiani ha riguardato il 89,4% delle partenze, quella verso l’estero il rimanente 10,6%.
Il processo immigratorio inverso, invece, è formato dal 93,8% di cittadini giunti dall’Italia e dal 6,2% di provenienti dall’estero.
Non c’è stata famiglia sangiorgese che si sia sottratta a questo fenomeno.

La popolazione di S. Giorgio in Bosco in 130 anni è quasi raddoppiata in virtù di questi processi demografici, dei quali l’emigrazione è stata la componente più rilevante. Sono forse queste cifre, con tutto il carico umano di vicende che nascondono, a suggerire l’opportunità di fare del Museo dell’Emigrazione di S. Giorgio in Bosco un punto d’incontro-confronto per trovare nuove opportunità di scambio e sinergie per un ritorno non nostalgico al passato, ma proteso oltre un localismo che diventa sterile se non sa guardare oltre i suoi confini e riconoscere tutti come figli propri. 

Le testimonianze di alcuni emigrati

18 giugno 1879, lettera del corrispondente Castro Bravo pubblicata nel giornale “Correio Commercial” per portare a conoscenza dell’imperatore del Brasile la situazione sociale e morale presente nella Colonia Italiana.

Lettera alla redazione per Sua Maestà l’Imperatore
Ci sono fatti in questa società ai quali l'uomo non può assistere senza che faccia male al cuore, quando si vede lo stato di miserabile degrado che riguardaun certo numero di creature, dotate come noi, è vero, di una anima capace di ragionare, di un cuore capace di percepire, ma provvista di uno spirito che non ragiona perché è abbrutito dall'ignoranza; di un cuore che non percepisce, almeno moralmente, per trovarsi indurito, abituato alle sofferenze della vita, dal rude lavoro e dai dolori continui, dalla miseria atroce che le va corrodendo!
Ma se queste misere creature non sono soggette ad una sofferenza morale, sono bensì sottoposte alla pressione dominante delle legge della natura, che ha dotato l'uomo di una costituzione psichica molto esigente.
Se non percepiscono come noi le torture, soffrono in quelle psichiche e fisiche, cioè la fame, la sete, il freddo e altre calamità che affliggono direttamente l'organismo umano!
È riguardo uno di questi lamentabili episodi che vogliamo per forza scrivere alcune righe su questo giornale, con la speranza che, se non si riuscirà ad estinguere la miseria che regna su questa povera classe sociale, almeno otterremo una consolazione per quei disgraziati che lasciando la Patria, la famiglia, per cercare la fortuna in luoghi sconosciuti, hanno trovato in queste soltanto la fame, le lacrime e la disperazione!
Alcuni giorni fa, ero intento a lavorare per la redazione di questo giornale, quando sono stato invitato da un amico ad assistere ad una deplorevole situazione che, con sfondo tetro, era sotto gli occhi della popolazione di questo capoluogo, gli emigranti italiani, che ritornando dalla colonia Nova Italia - dimenticata a Paranaguá - si trovavano ammucchiati nel Piazzale del Passo, vicino alle baracche della Piazza delle Marine.
Lì, sotto una miserabile e piccolissima tenda costruita di tela che non poteva contenere più della metà di quelli che vi cercavano riparo, stavano ammucchiati donne, uomini, bambini seminudi, affamati, offrendo un tal grado di malessere che ripugna descrivere!
Fuori, qua e là, sostavano anche vari gruppi di persone, respirando tutti la stessa miseria! Una donna tentava di ingannare la fame del figlioletto con un pezzo di biscotto ricoperto di muffa. Un gruppo di individui masticavano tabacco talmente usato, che da molto tempo aveva perso il colore e l'odore originale!
Poco lontano alcune donne stavano rannicchiate attorno a tre pietre, intente a cuocere al calore di un piccolo fuoco la cena frugale che si componeva di un smilzo pezzo di carne secca, alcuni fagioli e pochi foglie di legumi, forse quelle che erano state scartate dai commercianti della piazza del mercato! I miseri bambini, non potendo trattenersi per le necessità dello stomaco, approfittavano di qualche momento di distrazione delle povere madri e mettevano le loro piccole dita nelle pentole bollenti, per vedere se raccattavano qualche sbriciola, sacrificandosi al dolore delle bruciature!
Si potevano poi vedere alcuni materassi, quasi tutti in pessimo stato, messi sopra il terreno, forse per asciugarli dall’umidità della notte precedente.
Ho parlato con uno di questi uomini, chiedendogli come erano trattati e come pensavano di alloggiare in quel luogo senza riparo?
Mi ha risposto che non erano soddisfati, erano maltrattati nella Colonia nella quale si trovavano e così avevano deciso di ritornare alla Corte. Si trovavano in quello stato, senza un tetto per proteggersi dal rigore del tempo, dormendo alcuni sotto il cielo, non potendo lenire la fame estrema che soffrivano!
Ecco fin dove può arrivare l'orrore di una situazione!
Nello stesso tempo, mentre queste povere vittime della loro malasorte soffrono le più atroci necessità, Vostra Eccellenza, il Ministro dell'Agricoltura, dorme in morbidi cuscini senza trovare un solo momento di ozio per rivolgere i suoi occhi ad una tale immensa disgrazia!
E non saranno questi uomini degni di alcuna compassione o attenzione pur essendo stranieri?
Non saranno creditori della pietà di Sua Maestà l'Imperatrice, essendo italiani come lei, e trovandosi in un Paese del quale è la sovrana?
Sarà possibile che Sua Maestà permetta che muoiano quasi per fame, stante che, se non nella nobiltà, almeno nel genere umano sono simili alla sua persona?!
Consentirà ancora che questi fatti accadano proprio sotto le finestre del palazzo reale?!
E non merita un rimprovero Vostra Eccellenza, il Ministro dell'Agricoltura, attivandosi con modalità tanto fiacche e vergognose con gli stranieri?
Proverà ancora a chiedere braccia agli stranieri quando queste braccia ricevono in pagamento per i loro servizi la fame e la miseria?
Siamo brasiliani, nemici feroci dell'invasione straniera del Paese, ma prima che brasiliani siamo uomini, e come tali non possiamo contenere la nostra indignazione nel vedere trattare in un modo tanto degradante un nostro simile!
Questo nostro articolo intende essere un grido della nostra giusta indignazione, un invito al trono imperiale affinché siano prese alcune decisioni per combattere il modo barbaro con il quale il Sig. Ministro dell'Agricoltura consente o comanda che siano trattati i poveri coloni!
E contando sulla magnificenza di Sua Maestà l'Imperatore, confidiamo che siano repressi questi abusi, che daranno come risultato soltanto l'ingiuria e la vergogna davanti le nazioni civili!

Castro Bravo

L’emigrazione negli Stati Uniti nel primo Novecento. Nel 1919 Valentino Marcolongo scrive una sgrammaticata, ma preziosa, lettera-memoriale ai familiari descrivendo la propria sfortunata avventura.

Mia memoria per sempre Marcolongo Valentino.
Granite Sity li 9. /12. 1919
Partito da Chicago li 26 Settembre in poi rivato in questo lavoro io go avuto tutte le disfortune che puo essere io li o avute al lavoro sono andato malissimo un giorno si lavora e uno si stava fermi perche non cera lavoro contro le impromesse avanti di partire da Chicago sono bellissime limpromesse poi tutto tutto difarente e poi lavoro bruttissimo riparazioni di aqua di un grande fiume e poi abiamo scuminciato lavoro di festa. E poi tutto quel giorno ano piovesto mi a tocato a stare sotto la piogia tutto que giorno enpoi din capo un mese missono amalato ogni giorno aumentava il male senza mangiare e poco bene.
Nissuno che era che me asistiva in messo tutta quella gente straniera che non seneaqupavano per niente e vivendo tutto con un poca di latte e un poca di marsala.
Basta dormire sule tole pegio delle bestie e amalato forte. E senza potere avere il dottore mai perche siamo molto lontani delli paesi sono Giunto il giorno primo Novembre a meso giorno io fatto come una specie di colpo sono statto 4 ore senza parlare e senza potter adare adienza che tutta la gente della campagna diceva ormai Marcolongo Valentino more chealora sono statto a casa un uomo per asistarmi per veder se vivo moro e la gente che era al lavoro diceva questa sera troviamo Marcolongo Valentino morto e poi il giorno dietro mi ga campato montato sun una carretta fino che abiamo trovato il tran etrico e poi sono andato alla Città. E poi mi go recatto di una familia di Siciliani che era pegio delle bestie Salvatiche che ancora quella sera resto visitatto dal dottore e lui mi ga fatto 15 punture e poi resto 5 giorni in quela familia ogni giorno aveva la mia visitta dal dottore e din poi 5 giorni mi ano speditto all’ospitale cola malatia Tracolite palmonite e gastrico e con impericolo di moregia di sangue. E in capo tre giorni che all’ospitale la sera alle ore 9 si gaveva scomminciato sangue per la boca e poi mi so invocato alla Madona di Vicenza di fare due messe per me che si calmasse. E percio il sangue.
E romai mi vedeva di morire e quanto mi creseva a non poter vedere familia molie e filli. E Dopo di quel volta sotto sempre melio e dio e la madona a fatto un miracolo di andare sempre melio. Altro che era redutto puro ossa come lo schenetro della morte mancava altro che sarasse li ochi e allora pareva buono. Io mi vedeva la familia e molie non diceva piu che non sono piu suo marito perche era disfiguratto della malatia. E in capo 10 giorni sono sortitto dal ospitale che non era nemeno capace da caminare dalla deboleza che aveva.
E apena uscitto dal’ospittale mi sono partitto per venire alla compagnia del lavoro e co sono statto a Granite Sity o perso la tramontana e sono stato perso 3 giorni per questi deserti senza mangiare e bere e senza denaro perche il denaro lo aveva depositato a casa. E poi se io dovesse a scrivere tutto quello che mi a tocatto in questi 40 giorni di mallatia sirebe un mistero incontemplabile io so qua per miraccolo del Signore e della Madonna.
Marcolongo Valentino
e poso certificare io di tutto queste cose sono vostro amico Mazzonetto Carlo mia memoria per sempre.

La saga della famiglia di Annibale Zorzi in Brasile attraverso la corrispondenza conservata dal prof. Luigi Zorzi di S. Giorgio in Bosco

Corrispondenza fra Annibale Zorzi e Francesco Zorzi

Sao Paulo, 13-07-1937

Carissimi nipoti e cognata
Con sommo dispiacere ricevei la triste notizia della morte di mio povero fratello; non potete immaginare il dolore che provai.
Stava sempre con la speranza (con un agiuto di Dio) di potersi vedere un’altra volta avanti di morire, ma Idio non lo permise, e sia fatta la sua santa volontà./ Che volete fare miei cari, bisogna darsi coraio. Iddio ha vosuto così e così sia./ Quel giorno che rivò la lettera, la mia famiglia non mi palesò la triste notizia.Era a mezo giorno quando rivai a casa dal lavoro per mangiare. Mia moglie m’intregò (consegnò) il Mesagiero di S. Antonio, che di costume tuti i mesi mi rivava, chè mio povero fratello mi aveva associato, cosichè l’ultimo che mi rivò, teneva dentro un cartone dove mi diceva che non mandava più il Mesagiero, in quanto non pagava l’ano pasado (passato), e perciò che io subito mi deo (diedi) un triste presentimento di qualche disgrazia./ Fui di nuovo al travaglio (lavoro), ma sempre con questo triste pensiero. Quando di sera ritornai dal travalio, subito che fui a casa, dis(s)i a mia molie: - Con certezza deve essere rivata qualche trista notizia. – Ella mi rispondeo subito: - E’ morto tuo fratello!- Puoi inmaginare qual colpo non fu per me e figli tutti adolorati./ Che volete fare miei cari! Bisogna conformarsi e rassegnarsi alla volontà di Iddio./ Oltre a questa disgrazia, sentii la triste sorte di tua moglie che (h)a dovuto soccombere un’operazione al peto. Spero che con l’agiuto de Iddio staga milior./ Noi a qui grazie Idio stiamo bene tutti, così voglio sperare di voi tutti. Che Idio ne conserva tuti per l’avenire in buona salute. Un conforto a te, cara cognata. Dati corano. Speriamo che Idio l’abia acolto alla gloria del Paradiso, che pregherà per noi tutti./ in questi giorni le farò dire una messa alla sua anima. Termino col mandarvi tanti saluti, uniti a caldi baci a voi tutti per noi tutti.
Vostro aff.mo cognato e zio / Animale.
(ps) Saluti al cognato Gildo e compare Antonio Anselmi. Ciao. Coragio.

Lettera al sindaco Leopoldo Marcolongo del dott. Lago Gelmino – Lovanio, 13 maggio 2004

Caro Signor Sindaco,
vorrei chiederle un grande favore. Il 30 maggio prossimo i fratelli Lago festeggeranno a Gavirate, in provincia di Varese, il compleanno del più vecchio di loro: 73 anni. Noi siamo tutti nati a Giarabassa da Giuseppe Lago, “castaldo” dei Busetto, prima del vecchio Giorgio e poi del figlio Ivone, e da Favero Elvira. Siamo 6 fratelli:

- Virginio nato il 25 maggio 1931
- Elio nato l'8 febbraio 1933
- Gelmino nato il 29 novembre 1936
- Sergio nato il 25 giugno 1938
- Ermido nato l'8 febbraio 1940
- Egidio nato l'8 febbraio 1940

Virginio è emigrato in Australia quando aveva 18 anni. Padre di tre figli, ha fondato, partendo dal nulla, prima una grande impresa di trasporti e poi l'impresa, attualmente gestita dai figli, Lago Refrigeratet Transport a Brisbane.
Elio, laureato in fisica all’Università di Stato di Milano, è pensionato ed abita a Paderno Dugnano (Milano).
Sergio, ancora in attività come capo dei Vigili Urbani di Milano, zona Duomo, abita anche lui a Milano. Per la cronaca é il cognato del signor Mazzonetto, già addetto all’anagrafe comunale del vostro comune, se non mi sbaglio.
Ermido ed Egidio, i due gemelli, pensionati, vivono vicino a Gavirate.
E poi ci sono io che vi scrivo. Partito da casa nel settembre del 1948 – l'arciprete di Carturo, Antonio Signorini, mi aveva mandato a studiare dai Frati di Monte Berico – non sono praticamente più tornato a casa. Follina, Isola Vicentina, Vicenza, Firenze e Lovanio in Belgio: sono queste le tappe del mio percorso.
Nei vostri annali sono probabilmente il primo abitante di Giarabassa ad avere ottenuto la laurea in Sociologia, all'Università Cattolica di Lovanio, con una tesi sui contadini operai di Castelfranco Veneto. Ho poi lavorato 35 anni come responsabile del servizio stipendi della stessa Università [...]
Sono ritornato a Giarabassa l'anno scorso dopo 45 anni. Che cambio e che emozioni: la casa dove siamo nati è in rovina (è l'ultima, lungo la strada, che prolunga il vecchio palazzo dei Busetto); la casa dove abitavamo, prima che i miei genitori emigrassero verso il Varesotto, è tuttora in piedi, ma i lavori di restauro si sono arrestati.

Le testimonianze dei discendenti degli emigrati sangiorgesi

Wilson Baggio e famiglia, discendente da famiglia emigrata in Brasile da Lobia nel 1887, nel ricordo del nipote Danilo Baggio

Wilson Baggio ha le sue origini in una famiglia di italiani, partita da San Giorgio in Bosco ed arrivata in Brasile verso il 1887, assieme ad un gran numero di emigrati partiti per lavorare nelle “fazendas” di caffè ad Araras, nello stato di São Paulo. Salvatore Baggio, suo nonno, aveva sposato Celestina Breda dalla quale ha avuto 10 figli che sono cresciuti dedicandosi ad attività agricole. Tramandano in famiglia che fosse un uomo molto impegnato nel lavoro.
Da Araras la famiglia si è poi trasferita alla fine del XIX secolo a Pirassununga, dove con tanta fatica è riuscita a comprare una piccola tenuta agricola. È a Pirassununga che nasce mio padre Pedro Baggio, dimostrando fin dalla giovinezza intelligenza, coraggio, grinta e la propensione per gli affari. Ha sposato Deolinda Biazollo, simile a lui per determinazione, e assieme al marito è stata la base della famiglia.
Nel 1924 la famiglia è ritornata ad Araras, perché i Baggio erano riusciti ad acquistare la Fazenda “das Palmeiras”. È in questo luogo che nasce Wilson Baggio. Ancora oggi la terra appartiene alla famiglia.
Pedro Baggio, nel 1929, visita il nord dello stato di Paraná e rimane colpito dalla ricchezza del territorio, dalla foresta e si ripromette di ritornare a vivere in quella zona. L’occasione propizia giunge nel 1939, quando Pedro si trasferisce con la famiglia nel paesino di Santa Mariana dov’è impiegato con la mansione di supervisore della fattoria le “fazendas” di caffè.
In questo periodo Wilson Baggio studia a Lins e successivamente a Botucatu. Nel 1945 si laurea in Economia e ritorna a casa, a Santa Mariana, aiutando suo padre ad amministrare le “fazendas”.
Pedro Baggio acquista la sua prima fattoria a Cornélio Procópio dove prende dimora la famiglia. I Baggio iniziano a coltivare il caffè, lavorando insieme, padre e figlio. Nel 1950 decidono di dedicarsi all’allevamento bovino. Nel 1966 acquistano 630 vitelli di razza “Nelore”, di origine indiana, e incominciano a migliorare sempre di più la qualità dell’allevamento, cercando continuamente di perfezionare la razza “Nelore”.
Nel 1955 Wilson Baggio si sposa ad Araras con Maria Thereza Michielin, dalla quale nascono 3 figli:
Wilson Baggio Junior, laureato in Scienze Agrarie ed Economiche nel 1978;
Pedro Baggio Neto, laureato in Scienze Agrarie nel 1979;
Maria Tereza Baggio, laureata in Architettura nel 1980.
I figli Wilson Baggio Junior e Pedro, dopo la laurea decidono di lavorare assieme al padre.
Josè Edson, fratello di Wilson Baggio, si occupa pure lui di allevamento bovino di razza pura.
Wilson Baggio è considerato un leader dell’agro business in Brasile, è riconosciuto e rispettato per la sua opera di difesa degli agricoltori. È il rappresentante del Paraná in ambito nazionale in questo settore.
Se oggi occupa questa posizione è perché dal 1950, assieme ad altri leader, combatté per introdurre politiche agrarie eque. Oggi è il presidente del Sindacato degli agricoltori, rappresentante della Federação da Agricultura do Estado do Paraná e membro del Conselho Deliberativo da Política Cafeeira, a Brasília.
La miglior definizione di Wilson Baggio è quella di uomo instancabile; è sempre il primo ad arrivare in ufficio e determinato nel volere raggiungere la perfezione nel suo lavoro, perché vuole cogliere i migliori risultati, cioè la vittoria.

Angelo Bertuzzo e famiglia, emigrato in Brasile nel 1894 nel ricordo del nipote J.E. Bertuzzo

Mio nonno partì da San Giorgio in Bosco per il Brasile nel 1894.
So che a San Giorgio in Bosco verrà ospitato un Museo dell’immigrazione. Molti immigranti sono arrivati in Brasile e hanno ricominciato la loro vita a Campinas. Ci sono molte persone in questo posto che sono legate a San Giorgio in Bosco, perché tutti loro hanno lì le loro radici.
Sono molto contento di questa iniziativa, sono già stato a San Giorgio in Bosco, e non vedo l’ora di tornare e poter visitare il museo.
Mi dispiace di non aver scritto in italiano, ho pensato che potesse essere più facile scrivere in inglese, perché credo che non ci siano molte persone lì attorno che possano capire il portoghese. Inoltre, non sono sicuro del mio italiano.
Io possiedo alcuni vecchissimi documenti come un “Passaporto” di famiglia datato 1894 e un “Certificato di tiratore scelto” datato 1873 del mio bisnonno Angelo Bertuzzo. Anche mia bisnonna Carlotta Santi nacque a San Giorgio in Bosco. Loro si sposarono a San Giorgio (1879), e più tardi decisero di emigrare in Brasile con i 5 figli. Angelo fu l’ultimo di 3 fratelli ad arrivare in Brasile. Angelo partì, suppongo, dopo che i suoi genitori, Luigi Bertuzzo e Teresa Girolimetto, erano già morti.
Loro erano soliti dire qui in Brasile, che tutti i Bertuzzo padovani avevano lasciato l’Italia, specialmente San Giorgio in Bosco.
Quei tre fratelli e le loro famiglie, circa 18 persone, hanno avuto circa un migliaio di discendenti in Brasile.
Ora mi piacerebbe fornirvi alcune informazioni riguardanti l’importanza degli immigrati italiani in Brasile.
Solo nello stato di San Paolo ci sono 15 milioni di discendenti da italiani. Questo stato, lungo il Rio Grande, Santa Caterina, e Parana, concentra il 95% dei discendenti. Provi a pensare a quanti stati e province nel mondo possono avere 15 milioni di cognomi italiani nel catalogo.
E poi, come ho detto, gli italiani hanno innalzato da zero lo stato di San Paolo, che oggi è uno dei più importanti in Brasile, con il GNP (economia) che è il doppio dell’Argentina.
Ringrazio molto, come ho detto non vedo l’ora di visitare ancora, in un vicino futuro, San Giorgio. E spero di visitare il museo dell’Immigrazione.

Annibale Zorzi e famiglia, emigrato in Brasile nel 1897
Annibale Zorzi (1864-1946), fratello di mio nonno Antonio (1866-1936), abitava a San Giorgio in Bosco, all’inizio della vecchia Via Lobia, e viveva del suo mestiere di falegname tuttofare (come era necessario allora) con la moglie Carolina Castellani (1871-?) e tre figli piccoli: Alessandro, Ermenegildo e Cesare. Neppure lui aveva seguito il mestiere di mugnaio del padre Ermenegildo e sembra che gli affari non gli andassero male se all’inizio degli anni 90 teneva il suo gruzzolo depositato presso il Banco di Sconto, banca nella quale gli consigliarono un non meglio precisato investimento che gli fu economicamente fatale. Infatti, anche il Banco di Sconto fu travolto nello “scandalo” della Banca romana del 1893 e Annibale si trovò dall’oggi al domani in braghe di tela. Tentò di sopravvivere resistendo, ma i tempi erano grami per tutti e alla fine decise di emigrare in Brasile con la famiglia. Partì per San Paolo il 18-11-97.
Né lui né i suoi discendenti sono più tornati in Italia, però i due fratelli si tennero sempre in contatto epistolare, ma di queste lettere e delle vicende ivi narrate da Annibale non è rimasta alcuna traccia cartacea, al loro posto solo i ricordi collettivi nelle famiglie Zorzi aldiquà dell’oceano, che col tempo hanno assunto connotazioni epiche e, come tali, mi sono stati tramandati.
Mi è stato raccontato che durante la traversata la moglie Carolina partorì una bambina che morì quasi subito e fu sepolta in mare. Lo sbarco a San Paolo per ovvi motivi fu traumatico: una folla di gente ammassata sulla spiaggia, che non sapeva dove andare e come provvedere a se stessa per il giorno dopo. In mezzo a questa folla di disperati, due guardie a cavallo andavano avanti e indietro, informandosi sui tipi di lavoro che i nuovi venuti sapevano svolgere.
Poche ore dopo che Annibale aveva fornito le sue competenze lavorative, arrivarono degli addetti con un carico di cartoni e di assicelle sottili, che se lo fecero indicare e gli intimarono di costruire delle baracche sulla spiaggia. Mentre era indaffarato con moglie e figli a drizzare questi ricoveri di fortuna, tornarono le guardie che gli chiesero se per caso se ne intendeva di trebbie. Non so se ne avesse mai vista una a San Giorgio, ma quando gli chiesero se sapeva ripararne una, non avendo niente da perdere, andò subito con loro. Questa che lui nelle lettere definiva trebbia da caffè, era tutta di legno, chiodi compresi. Ci si mise d’impegno, aguzzando l’ingegno, e la deve aver riparata così bene che lo assunsero subito come addetto alla manutenzione di questa macchina che, a suo dire, prima si rompeva un giorno sì e un giorno pure.
Con un lavoro sicuro ed insperato, per lui e per la famiglia fu l’inizio di un periodo perlomeno sereno. I figli più grandi, ai quali in Brasile se ne aggiunsero altri otto, col tempo iniziarono a lavorare nel settore del caffè: prima nelle piantagioni e poi (ma non mi è dato di saperne di più) mettendosi in proprio con una piccola industria per la lavorazione del caffè a Santa Fè do Sul. Nel contempo frequentarono la “Escola de aprendizer artifeces”. Alessandro ed Ermenegildo nel 1920 spedirono in Italia due loro disegni scolastici, che sapevano graditi a mio nonno, assieme ad un sacco di caffè che qui non si trovava, e sapevano gradito a mia nonna. I disegni arrivarono e sono tuttora conservati, del caffè neanche la puzza. E così mia nonna Marietta dovette continuare ad abbrustolire orzo e cicoria nella palla tostatrice.
Nel 1936 morì mio nonno Antonio e Annibale cominciò ad indirizzare tutte le lettere a mio zio Francesco, capofamiglia della tribù, che le conservò. Sono poche perché di sicuro alcune andarono perdute e perché di mezzo ci fu la guerra: il Brasile era nemico dell’Italia ed era impossibile comunicare, ma sono illuminanti.
Nella prima, del 13-07-37, esprime tutto il dolore ed il rammarico per non aver più la possibilità di rivedere il fratello al quale era molto legato e dal quale, in segno di affetto, riceveva in abbonamento tutti gli anni il Messaggero di S. Antonio. Dice anche di aver appreso la triste notizia tornando dal lavoro alla sera: a 73 anni lavorava ancora per l’intera giornata!
Nella seconda lettera, 04-03-46, dopo la guerra, racconta di essere in pensione, ma che a 82 anni fa ancora qualche piccolo lavoretto. Lamenta la morte di un figlio diciottenne, ma non si sa in che data, per cui di dodici figli nati, gliene restano otto di vivi: tre maschi e cinque femmine. Poi descrive, per così dire, in nomi e numeri la sua grande famiglia: Gildo, il maggiore, con moglie benestante e sette figli, Alessandro con moglie “con sostanza” e quattro figli; dal che si evince che doveva essere vera la storia della fabbrica di caffè, altrimenti le mogli ricche se le sarebbero sognate.
Nell’elenco vengono poi. Giovanni con due figli, Amelia con due, Maria con 4, Anita con 2, Armida con 1 e Adelina con 2. In tutto 25 nipoti.
La lettera successiva, conservata in ordine cronologico, è del 12-02-1947 ed è scritta da Carolina Castellani Zorzi, moglie di Annibale. In precedenza ce ne deve essere stata un’altra, perduta, che annunciava la morte del marito, perché in questa, oltre ai soliti convenevoli, lei ringrazia Francesco per averle inviato copia del certificato di matrimonio da San Giorgio, che le serviva per ottenere la pensione di 124 fiorini al mese. Gli racconta di essere affetta da cataratta ad un occhio all’età di 75 anni e gli chiede di salutare i suoi fratelli, dei quali probabilmente non aveva più l’indirizzo. In questo scritto per la prima volta partecipano ai saluti anche Alessandro e la moglie Julia, con i figli Joao ed Melena, che si scusano per non conoscere bene l’italiano.
L’ultima lettera che possediamo, è del 22-01-1953. E’ firmata da Carolina, ma è scritta dalla nuora Julia, sotto dettatura, che lo conferma alla fine dello scritto.
In essa fa un nuovo aggiornamento della situazione familiare della sua tribù, dice di godere di ottima salute a 82 anni, non menziona i problemi agli occhi, chiede notizie dei fratelli, tutti più anziani di lei, e degli Zorzi di qui, lamentando il fatto di aver inviato precedentemente altre due lettere, rimaste senza risposta.
Qui finisce la corrispondenza in nostro possesso e probabilmente anche quella reale.
Né i miei zii, né tanto meno mio padre, avevano conosciuto zii e cugini. Il legame,
puramente cartaceo, non poteva essere profondo, dopo la morte dei vecchi, e non poteva resistere all’usura dei tempi grami postbellici col loro carico di preoccupazioni e di speranze. Resta il rammarico da parte mia di non conoscere i nomi dei componenti della seconda generazione e di non saper dove andarli a cercare.

Francesco Scalco, emigrato in Brasile nel 1898
Tra le tante storie di emigrazione, questa merita di essere raccontata per la sua originalità. I fatti in essa contenuti non sono fantasiosi, ma ben radicati, anche se talvolta sommari, nella memoria dei parenti rimasti in Italia.
Correva l’anno 1898 quando il conte di Bolzonella decise di farsi costruire un roccolo in muratura (ancora esistente) per la caccia in postazione nel boschetto, vicino alla Brentella e poco lontano dalla villa. Per far spazio alla costruzione erano state abbattute diverse piante di alto fusto, che dovevano essere scortecciate e squadrate per far travi da solaio. Per questo lavoro di carpenteria aveva chiamato a paga tipo corvèe, cioè per una miseria (come si usava allora) il falegname Francesco Scalco che abitava come suo fittavolo a Villa del Conte.
Francesco, primo dei 18 figli di Luigi e di Maria Zaramella, era già emigrato nel 1892 in Brasile con la sorella Costanza, nata nel 1879, sulle tracce del fratello Angelo partito nell’87, ma era rientrato in Italia l’anno dopo, probabilmente con le pive nel sacco, con chissà quanta rabbia e delusione, ma anche con una visione del mondo che lo rendeva poco propenso a farsi umiliare oltre il lecito dai potenti per un piatto di minestra.
Non si sa se la giornata fosse bella e se gli uccellini cantassero mentre, nel bosco, Francesco sulla mola portatile, ad acqua, andava affilando i suoi ferri del mestiere , che poi disponeva ordinatamente sopra un tronco abbattuto.
Aveva appena finito di affilare a regola d’arte la valdora, scure da squadratura, corta di manico e col taglio lungo e poco curvato, e si era girato per sistemare un altro attrezzo, quando gli giunse alle spalle un non meglio identificato ospite del conte, che da un po’ di tempo si aggirava nei paraggi. Costui, o stupido di suo o per esibire al presente servo della gleba che lui era Lui e l’altro uno zero, o per entrambi i motivi, impugnata la valdora, la calò di taglio con violenza contro uno spigolo di ferro, producendole sul filo una tacca micidiale, e poi se ne andò bel bello.
Francesco, intuendo dal rumore ciò che era accaduto, giratosi di scatto e visto il danno grave, e soprattutto gratuito, dopo il fatidico: - Te copo, fiol de na troia! – partì a testa bassa dietro all’arrogante, con la scure in mano e con una serqua di insulti con cui gli andava ristrutturando l’albero genealogico.
L’illustre ospite, già al trotto per la tempesta verbale che lo seguiva, passò decisamente al galoppo quando la scure rovinata, fischiando, lo sorpassò troppo vicina alle orecchie, e partì di gran carriera sentendosi ormai alle spalle l’indemoniato che voleva batterlo come un baccalà. Da leone fattosi lepre, a volo radente attraversò Vele (i prati), Brentella e Stradona e si rifugiò in villa dove, rialzata al sicuro la cresta, raccontò al conte la sua verità.
Il conte, volendo far vedere ai sudditi che a San Giorgio il medioevo era vivo e vegeto, senza accertare i fatti e senza por tempo in mezzo, con carrozza e cavalli partì per Sant’Anna e, giunto alla casa-madre degli Scalco, nell’edificio porticato che c’era all’imbocco dell’attuale via Monte Grappa, intimò al vecchio padre Luigi, ritenuto responsabile di tutta la famiglia: - O via lui o via tutti! –
Sicuramente il povero vecchio si sarà commiserato, umiliandosi anche sotto la soglia della dignità, come pretendevano i signori del tempo: Cagni, Fabian, Busetto etc., tanto per citare quelli di San Giorgio, ma il conte fu irremovibile.
Francesco, per non compromettere la già precaria situazione dei suoi familiari, rifece carte e sacca e partì nello stesso anno da Genova per il Brasile con la nave Sirio. Tanto per non dimenticare, il nome Sirio fu imposto l’anno dopo, nel ’99, al primogenito del fratello Antonio, mio nonno materno.
Di una eventuale corrispondenza tra Francesco e i familiari non sono rimaste tracce.
Subito dopo il secondo dopoguerra due sue figlie giunsero in Italia per vedere se gli Scalco di qui erano vivi o morti. Visitarono i parenti, Padova, il Santo e chiesero a mio zio Luigi se voleva farsi un giro in Brasile. Lui le ringraziò del pensiero gentile, ma aggiunse che di mondo ne aveva visto abbastanza con la divisa militare e con quella a righe, offertagli dai tedeschi, e che non ne era rimasto granchè soddisfatto, per cui non desiderava altro che di restare a lavorare a casa sua, e con la sua donna.
I rapporti con i parenti del Brasile sarebbero finiti qui se nel 1996 non fosse venuta in Italia Tatiana Scalco Silveira, pronipote di Giovanni Scalco da Villa del conte, cugino di Francescobella ragazza con indubbie ascendenze creole, che voleva conoscere con precisione i nomi dei suoi antenati diretti, individuandoli nel guazzabuglio degli Scalco di San Paolo del Brasile e di quelli dell’Altopadovano, dei quali aveva sentito parlare. Le interessava anche imparare la lingua italiana. 
 Ai lontani parenti di Bolzonella, ai quali era stata indirizzata e che la ospitavano, raccontò di aver sentito narrare che Francesco, spintosi nell’interno del Brasile col suo lavoro di boscaiolo, nella Sierra do Espinaço (a nord di Belo Orizzonte), in circostanze avvolte nel mistero aveva scoperto una miniera di diamanti, che fece la fortuna sua e dei suoi figli che poterono studiare senza problemi. In un giorno non meglio precisato, al quarto piano di un palazzo di San Paolo, costoro si misero a litigare furiosamente mentre si spartivano i diamanti. Non avendo di meglio sottomano, cominciarono a prendersi a sassate con le pietre preziose. Una manciata di queste trovò però una finestra aperta e finì in strada. Naturalmente corsero giù, ma in strada di brillante trovarono solo la propria stupidità.
Ora Tatiana è interprete all’aeroporto di Rio, la sorella Ludmilla fa la modella. I loro genitori: Neide Scalco Silveira e Tacito Wagner Marconi, sono venuti in Italia qualche anno fa per conoscere parenti e monumenti. Del resto dell’ampia discendenza di Francesco non si hanno notizie certe.

I Biasibetti emigrati in Brasile nel 1923 nel ricordo di Emilena Grossi
I Biasibetti provenivano da Villa del Conte, ma si erano stanziati a S. Giorgio in Bosco da dove partirono per il Brasile con il vapore Napolis nel mese di dicembre del 1923 con mio bisnonno Riccardo di 48 anni e il figlio primogenito Pietro di 22 anni.
L’anno seguente partirono per la stessa destinazione con il vapore Re d’Italia anche la moglie Regina Vanzo e tutti i rimanenti figli: Maria, Rosario Antonio, Marcellina, Pietro II, mia nonna Giuseppa, Riccardo II e Felice.
Quella dei Biasibetti era una famiglia povera e a S. Giorgio in Bosco rimase il secondogenito di Riccardo e Regina che si chiamava Cornelio Ermindo. I miei bisnonni non sono più riusciti a ritornare in Italia per rivedere il loro secondogenito e questa è stata una delle pagine più tristi della nostra famiglia.
Giunti in Brasile, i Biasibetti si stanziarono nello stato del Parana e più precisamente nella città di Mandaguaçu. Qui i Biasibetti hanno sempre fatto gli agricoltori in un’azienda rurale e si sono moltiplicati molto. Mia nonna Giuseppa, che aveva sposato un brasiliano, ha avuto 19 figli dei quali 11 ancora in vita.
Complessivamente oggi ci sono 55 nipoti e 60 pronipoti discendenti dei figli di Riccardo Biasibetti e Regina Vanzo e ritengo che sia un omaggio importante verso tutti gli emigrati la creazione del Museo dell’Emigrazione, anche verso gli espatriati da paesi diversi da S. Giorgio, come i nonni paterni Boian che emigrarono da Padova o i Grosso che partirono da Arcade nel 1888 imparentandosi in Brasile con i Biasibetti.
Storie di emigrazione nella famiglia di Giuseppe Gobbato
Raccontano Italia Villatora, vedova di Mario Gobbato, e Irma Gobbato, vedova di Mario Brugnaro.
Giuseppe Gobbato, classe 1881, contadino con poca terra, aveva sposato Maria Zanco e avevano messo al mondo sei, degli otto figli avuti, prima che lui venisse spedito in guerra nel 1915. Si può quindi facilmente immaginare come la sua famiglia nuotasse nell’oro al suo ritorno dalla guerra. Il primo figlio, Albano, nato nel 1905, partì con altri 23 sangiorgesi, tra i quali il cugino Domenico, nel 1923 con destinazione Parigi. Erano tutti muratori. Albano lavorò sempre a Parigi e dintorni, tornò in Italia a rivedere i parenti, per la prima volta, nel 1964, in occasione del primo grande raduno dei fratelli e sorelle Gobbato, sparsi per il mondo, e la sorella Irma (1927) lo chiamava zio, non riuscendo a realizzare di avere un fratello partito da casa ben prima della sua nascita.
A Mario, nato nel 1906 e rimasto a San Giorgio, seguì Attilio (1908) che si arruolò nei carabinieri. Svolse gran parte del servizio in provincia di Bergamo (Ponte Selva) e lì rimase per sempre.
Erminio (1910) faceva il falegname con lo zio Gerardo (Lalo) e, per sopravvivere, entrambi furono costretti negli anni trenta ad emigrare ad Asti come contadini. Non è che fossero artigiani scarsi, era che in quel tempo, come mi raccontava mio padre falegname, se non avevi anche terra da coltivare, non sopravvivevi perché c’era poco lavoro, troppi falegnami e troppa miseria in giro. Erminio era militare in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e rimase al Sud dopo l’invasione alleata del ‘43. A Salerno si sposò con Maria, una ragazza del posto, si fermò lì e poté finalmente vivere del suo mestiere, mettendo in piedi una piccola azienda con operai. Costruiva cassette postali in diversi modelli, che ebbero sempre un ottimo successo di mercato e che oggi sono considerati dei cimeli. E’ rimasto celebre presso i parenti anche per le sue vicende di “educatore” delle figlie. Quando queste, un po’ troppo vispe, gli scappavano da tutte le parti nelle vie del quartiere, cercandole affannosamente e non sapendo più con chi prendersela, inveiva contro “ chel can de Garibaldi che ga taconà-su l’Italia!”.
Adelia (1912) e Rita (1914) per qualche tempo, come emigranti, ebbero destino comune. Il parroco di San Giorgio, dell’epoca, don De Franceschi, ben consapevole della miseria generalizzata nel paese e delle troppe bocche da sfamare nelle famiglie, riuscì a trovare un impiego ad alcune ragazze nella Snia Viscosa a Salerno. Nel 1927, in corriera, da San Giorgio partirono 23 ragazze, tra queste: Adelia e Rita Gobbato, una Rocco (Campanéa), una Parisotto (Menegon), una Stocco (Dosso), una Melchiori (Cinèo Muraro) e altre che le mie informatrici non ricordano più.
Non fu un’esperienza né facile né appagante. Lavoravano in filanda con i turni e i metodi di allora: mani scottate da “scoatine” che partivano dalla gavetta, spesso con i pidocchi addosso e, alla fine del lavoro, in convito dalle suore, con pasti che garantivano colesterolo e trigliceridi bassi. La paga veniva spedita direttamente alle famiglie di San Giorgio e alcune di queste povere ragazze hanno guadagnato solo la TBC e la morte.
   Dopo otto anni di questa “agonia”, nel ’35, Adelia andò, come domestica, a servizio presso privati a Napoli, poi si impiegò come cassiera nel bar Roma, sul lungomare-bene di Salerno dove, per la sua risolutezza, veniva chiamata “la padovana”. In seguito (e qui la memoria delle date, da parte delle mie informatrici, diventa aleatoria) divenne cassiera del cinema Lagusteo (L’Augusteo?), sempre a Salerno.                                                   
Ad un certo punto decise di andare in Svizzera come cuoca dei salesiani. Lì, in età matura, prese marito e successivamente tornò in Italia, a Battipaglia (RC) E’ sepolta nel cimitero di Pagani (Salerno), nel paese dove era approdata alla fine, e felicemente, la sorella Rita con la quale aveva condiviso le sofferenze della prima giovinezza e, spesso, degli anni successivi.
Anche Rita nel ’31 lasciò la Snia Viscosa, ma non seguì la sorella a Napoli e tornò a casa. Si sposò con Giovanni Caldognetto; ma miseria e bisogno erano sempre stabili. Allora lui si arruolò nella Milizia. Fu spedito nel meridione e lei lo seguì col fratello Giuseppe (1923), tredicenne in cerca di lavoro. La prima figlia, Adriana, nacque a Napoli nel ‘35. Poi il marito venne mandato in servizio in Libia, dove nel ’38 contrasse la TBC che lo portò alla morte nel ’44, a 31 anni. Non sapendo più come fare per vivere, sempre nel ’38, Rita portò la figlia a San Giorgio ed emigrò a Varese con Giuseppe: lei come operaia, lui come bracciante contadino. Poche le visite a casa per rivedere figlia e marito, ricoverato a Galliera. Nel ’40 le nacque Sergio. Nel ’42, anche per i bombardamenti delle zone industriali, entrambi dovettero ritornare a casa. Nel ’43 ripartì per Salerno, con Giuseppe, non ancora chiamato alle armi, per andare a recuperare del materiale che apparteneva alla sorella Adelia e, con la sua solita fortuna, si ritrovò nel mezzo dello sbarco alleato e poi tagliata fuori dal fronte bellico, per due anni, dai famigliari e dalla figlia, allevata in casa Gobbato, e dal figlio, allevato in casa Caldognetto. In quel periodo burrascoso Rita e il fratello sbarcarono il lunario lavorando dovunque si presentasse l’occasione. Giuseppe conobbe una ragazza di Vietri sul Mare, con la quale si tenne in contatto e che sposò nel dopoguerra, quando si trasferì definitivamente a Besnate, in provincia di Varese a fare il manovale. Poi divenne cantoniere e infine bidello.
Tornando da Salerno, Rita conobbe in treno un distinto signore di Nocera Inferiore, che aveva una piccola ditta di lavorazione di frutta e ortaggi nella vicina Pagani. Lui dopo un po’ la chiese in moglie e, da persona di cuore, volle che portasse “in dote” anche Adriana e Sergio. Ebbero altri quattro figli.
La ditta di export di frutta e verdura nel frattempo si ingrandiva: riforniva la Nato in Germania con due vagoni alla settimana e anche per Rita sembrava che fossero finiti i dispiaceri. Senonché, negli anni ’70 (e qui le mie informatrici non ricordano bene l’anno), un “caporale” che voleva imporre i suoi braccianti e con il quale il marito di Rita non intendeva scendere a patti, gli sparò in ufficio, uccidendolo, e ferendo gravemente il fratello. Le sorti della ditta comunque proseguirono bene sotto la direzione di Adriana Caldognetto e dei suoi fratelli.

Mario Brugnaro e l’avventura coloniale in Etiopia
Mario Brugnaro, classe 1911, conosciuto a San Giorgio in Bosco per l’attività di macellaio, con negozio che ora la figlia Marina ha ampliato anche in rinomata gastronomia, apparteneva ad una delle tante famiglie numerose del paese e dell’epoca. Orfano da bambino del padre Giuseppe, morto nel 1920 per malattia contratta nella grande guerra, viveva con i fratelli in campagna, alternando l’attività di contadino a quella del commercio di suini, che il padre aveva iniziato e il fratello Augusto aveva proseguito. Questo modo comunissimo di vivere venne interrotto prima dai 18 mesi di naja: dal 33 al 34, e definitivamente il 9-02-1935 quando partì, richiamato, per l’Africa orientale, dove l’Italia preparava le truppe per l’aggressione all’Etiopia.
Sbarcò in Africa, a Massaua, il 7-07-35, sarebbe tornato dal Kenya solo nel 1947.
Di questi dieci anni restano solo due lettere alla zia Antonia Brugnaro: spedite da Macallè il 23-11-35 e da Addis Abeba il 10-06-36. Per il resto qualche fotografia e pochi ricordi, sbiaditi dal tempo, nella memoria della signora Irma, sua moglie.
In base a queste testimonianze, Mario si fece da soldato: mitragliere nella divisione Sabauda, tutta la campagna di Etiopia, entrando con le prime colonne italiane nella capitale che descrive come un grosso paesotto. Finita la guerra, decise di rimanere lì come emigrante e per questo fu congedato perché collocatosi in colonia. Si fece la patente del camion e cominciò a scorrazzare in giro per l’Etiopia a trasportare cosa, non sappiamo, né per conto di chi. Ma questo autocarro non doveva essere un granché se, come raccontava, un giorno lui e il suo coautista videro in mezzo alla strada un leoncino e lo presero a bordo, ma la leonessa, per nulla d’accordo, si mise a inseguirli e, siccome correva più forte del camion, per evitare discussioni glielo buttarono fuori. Episodi a parte, guadagnava bene, tanto da potersi permettere di aiutare una parente in difficoltà con un prestito di mille lire, che allora erano una discreta cifra, ma non più alla fine della guerra.
Allo scoppio della guerra nel 40 fu richiamato alle armi al 111^ autoreparto, fu catturato il 19-05-41 dagli inglesi e spedito in campo di concentramento in Kenya. Qui accettò di andare a lavorare come contadino-autista in una grande tenuta, assieme a due italiani e a due indigeni e si trovò così bene, raccontava poi, trattato con grande umanità e correttezza, come mai prima in vita sua, che tornò a casa il 17-11- 46 solo perché costretto dalle autorità locali. Se avesse potuto scegliere, sarebbe rimasto lì per sempre.
A casa trovò la vita di sempre, anche più grama per la svalutazione della lira che gli aveva polverizzato i risparmi, ma riuscì a rimettersi in sesto con l’aiuto del macellaio Salvato di Campo San Martino, che gli diede una mano ad aprire a San Giorgio la macelleria già nominata.

Elzo e Manfredo Nabissi con Romolo e Umberto Lessio in Svizzera negli anni Cinquanta
Elzo (1931) Nabissi, Romolo (1932) e Umberto (1937) Lessio erano amici e vicini di casa. Dopo le scuole elementari erano diventati tutti muratori partendo dalla gavetta e poi emigrarono in Svizzera, forti della loro arte, esclusivamente per guadagnare di più. Il lavoro ce l’avevano anche qui ed erano apprezzati, ma l’idea che la stessa fatica gli consentisse di migliorare rapidamente gruzzolo e prospettive future, gli fece fare il grande salto all’estero: scelta non facile in quegli anni.
Il primo a partire fu Elzo Nabissi che lavorava col padre Tiziano per la ditta Bonaldo di Cittadella. Avendo saputo da alcuni suoi ex compagni di lavoro, già emigrati, che in Svizzera si guadagnava molto di più, tramite loro riuscì ad ottenere un contratto di lavoro per una ditta di Neuchàtel. Il contratto aveva valore annuale, per cui ogni operaio doveva rientrare in patria, di solito in inverno, e ripartire l’anno dopo con una nuova chiamata della ditta. Emigrò nel 1954 e rimase in Svizzera fino al 1961.
Col contratto di lavoro, arrivato in treno alla frontiera di Domodossola, come tutti gli altri emigranti venne sottoposto a rigorosa visita medica, se non l’avesse superata, sarebbe stato rispedito a casa. E la visita andava ripetuta ogni anno ad ogni rientro.
Dopo due anni di lavoro nella stessa ditta, date le sue capacità, gli fu proposto di diventare capocantiere, previa frequenza di un corso di lingua francese per poter stilare, alla fine di ogni giornata lavorativa, un rapporto scritto sui lavori eseguiti. Tutto andò bene e divenne capocantiere molto apprezzato. Alloggiava, come tanti altri, in una stanza, affittata presso privati, e doveva provvedere da sé per il bucato, mentre prendeva i pasti di mezzogiorno e sera alla mensa, lì chiamata “pensione”. La paga era buona: 2,60 franchi all’ora, ma migliore ancora era il rapporto tra stipendio e costo della vita, sempre che uno avesse avuto l’intenzione di risparmiare. Elso nel tempo libero andava a pescare al lago di Neuchàtel. Nel frattempo aveva conosciuto una ragazza di Cadoneghe, emigrata anche lei. Si sposarono, ebbero una figlia e nel ’61 decisero di rientrare in Italia per permetterle di frequentare la scuola in Italia.
Quando tornava dalla Svizzera per le ferie, Elzo incontrava gli amici vicini di casa: Romolo e Umberto Lessio, e raccontava della sua situazione favorevole, invogliandoli a partire, anche se non gli propose mai direttamente di farli assumere nella ditta per la quale lavorava. Allora Romolo, per interessamento del cugino Carlo di Ispra, sempre con le stesse procedure, partì nel ‘56 con un contratto di lavoro per una ditta tedesca ad Argau, presso Zurigo. Niente di nuovo per il lavoro: simile a quello in Italia, salvo per l’uso molto più consistente di cemento armato e di blocchetti di calcestruzzo per la muratura. Racconta che, alloggiato presso privati, doveva provvedere personalmente per i pasti e per il bucato. Buona la paga e testa a posto per risparmiare. Nel ‘57, sempre con la stessa trafila, si fece raggiungere dal fratello Unberto, partito pochi giorni prima che gli arrivasse la cartolina precetto del servizio militare e che per qualche tempo dormì nella casa del titolare della ditta, dato che non si poteva restare in Svizzera senza residenza controllabile dalla polizia. Poi andò ad alloggiare con Romolo, nella maggior parte dei casi cuoco bravo, lavapiatti e lavandaio per affetto e comprensione del giovane fratello, fervente e pieno di vita, che all’inizio non amava la birra e non digeriva i wurstel, roba da tedeschi, troppo diversi dai piatti meravigliosi della nostra cucina. Nel ‘58 l’amico Elzo Nabissi, visto che in Svizzera si erano ambientati e che erano apprezzati come muratori, gli propose di passare nella ditta in cui era capocantiere. Il che avvenne e si trasferirono a Neuchàtel. Il lavoro era sempre quello, anche se Umberto assicura di aver imparato lì tutto quello che c’era da sapere sulla carpenteria relativa all’uso del cemento armato e anche sul funzionamento razionale di un’impresa edile.
 In ogni caso, nel tempo libero, qualche licenza libatoria al sabato sera e la pesca al lago era tutto quello che entrambi si permettevano e che giustamente sottolineano. Il resto è privacy.
Gustoso è un episodio che racconta Umberto: Un giorno stava pescando nel lago di Neuchàtel, nel periodo in cui non si poteva perché il pesce era in frega. Lui pescava per mangiare e non per sport, per cui alla lenza aveva attaccato diversi ami che uncinavano i pesci, ammassati e frenetici, in ogni parte del corpo e gli consentivano una raccolta miracolosa. Elso Nabissi nei paraggi gli urlò ad un certo punto: - Ocio ‘e guardie! – Lui, preso dalla paura, perchè essere sorpresi a commettere reati significava essere rimpatriati, diede un colpo all’insù alla canna: lenza e pesci vari, agganciati, la seguirono, compirono una bella evoluzione circolare in aria e andarono ad accavallarsi ai fili della luce soprastanti, dove rimasero a fare bella mostra di sé. Lui tagliò prima la lenza a poi la corda, ma nella fuga sul marciapiede, girando l’angolo di uno stabile, inforcò una donna svizzera che andò a gambe all’aria e poi si mise a strillargli dietro: - Italien merde, italien merde! - Non potendo fermarsi a darle spiegazioni, la mandò mentalmente a quel paese e proseguì la corsa.
Nel 61 i fratelli Lessio rientrarono in Italia e, dopo il servizio militare di Umberto, si misero in proprio: Il primo lavoro che fecero come ditta fu la ristrutturazione della ex cappella di villa Fabian (ora Bembo), in casa privata. Il loro primo mezzo di trasporto per i materiali edilizi fu un carretto, trainato dall’ antica mussa (asina) di famiglia, che da tempo immemorabile doveva essere entrata in menopausa, ma che non si arrendeva alle ingiurie del tempo. Ora la ditta Lessio Romolo è ben conosciuta ed affermata.
Manfredo Nabissi, classe 1936, fratello di Elzo, emigrò nel ‘59, a Neuchàtel, come specialista meccanico in una concessionaria della Citroen. Le sue cognizioni di meccanica erano in realtà molto relative e apprese presso la Carraro di Campodarsego, dopo che aveva abbandonato i salesiani, scoprendo che tutto avrebbe voluto fare nella vita, tranne che il prete. La sua intelligenza e la sua passione per i meccanismi, e per i motori in particolare, però erano e sono tali per cui in pochi anni fu promosso a capo officina nello stesso posto di lavoro. In Svizzera si è fatto una famiglia ed ha preso la cittadinanza. E’ anche un esperto in comunicazioni radio e con questa specialità ha fatto il servizio militare a puntate, come per legge in quel paese. Mi ricordo ancora di come nel ‘55, quando ancora a San Giorgio non c’era la corrente elettrica, avesse adattato una radio a cuffie, che dicono fosse un residuato bellico tedesco e che funzionava molto bene, alimentata da una dinamo, collegata a una piccola ruota a pale, che ogni piccolo salto d’acqua di pozzo artesiano, qui presente in ogni casa, poteva far girare.


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