giovedì 30 giugno 2011

Paolo Miotto
A Tombolo nella prima metà del ‘600: fra giochi di potere e miracoli in un villaggio alla ricerca di identità. Il difficile rapporto fra i tombolani e l’abbazia di S. Eufemia (Abbazia Pisani)

in Alta Padovana, Storia, Cultura, Società, 5, Giugno 2005, pp. 97-110.


Una vicenda originale e poco nota della storia di Tombolo riguarda la serie di miracoli attribuiti alla statua della Madonna che ancora oggi si può osservare all’interno della chiesa parrocchiale di S. Andrea apostolo. I miracoli si manifestarono nei mesi di maggio, giugno e luglio dell’anno 1624, durante uno dei periodi più travagliati della storia civile e religiosa tombolana. I prodromi del tortuoso e complesso percorso della storia religiosa e civile di Tombolo, nel quale rientra a pieno titolo anche la vicenda della quale ci occupiamo, risalgono al 29 aprile dell’anno 1085. In quel giorno, infatti, la chiesa di Tombolo - allora stranamente intitolata al patriarca biblico Abramo - era stata donata assieme ad altre chiese alla neonata abbazia di S. Pietro e S. Eufemia di Villanova (Abbazia Pisani) dai capostipiti delle famiglie da Onara e da Romano - nota ai più per aver dato i natali ad Ezzelino III - e dei consorti Camposampiero.[1]
Da allora il legame fra le due istituzioni (l’abbazia e il villaggio di Tombolo) fu inscindibile nel bene e nel male, decretando un secolare rapporto che prevedeva, fra le altre cose, l’elezione del curato di Tombolo dai parte degli abati regolarmente eletti dalla comunità cluniacense abatina (fino al 1444) e successivamente dagli abati commendatari della stessa (fino al 1772), per poi lasciare il privilegio ai vari giuspatroni laici che si succedettero nel possesso dei beni immobili abatini fino al 1920, quando l’ultimo giuspatrono, il Cav. Romano Trevisan, rinunciò alla secolare prerogativa a favore della curia vescovile di Treviso.
Non si deve però dimenticare che Tombolo aveva legami di sudditanza ecclesiastica anche con la pieve di S. Martino di Lupari, dalla quale si era staccata ufficialmente nel 1425, senza tuttavia ottenere una totale separazione come si dirà più avanti.
Un avvenimento di sostanziale novità per i tombolani si verificò nel 1607, quando l’abate commendatario Lodovico Lodovisi di Bologna, cardinale e nipote del pontefice Gregorio XV, decideva di riconoscere il rango di parrocchiale alla chiesa di Tombolo, obbligando gli abitanti di Abbazia Pisani e una parte di Borghetto a ricevere i sacramenti in quella chiesa. In questo modo la chiesa madre abatina da madre diveniva figlia, rimanendo soggetta alla parrocchia di Tombolo per i sacramenti fino al 1873 e in qualità di curazia fino al 1936.
La scelta non modificava i rapporti fra l’abate e il curato-parroco di Tombolo perché quest’ultimo continuava ad essere eletto e nominato dal commendatario, su proposta dell’amministratore delegato (agente) che viveva nell’abbazia, e non dal popolo e nemmeno dal vescovo che aveva il solo compito di legittimare la scelta. A cambiare, invece, era soprattutto il rapporto degli abatini e in parte dei borghettani nei confronti dell’antica chiesa madre, rappresentata dalla pieve di S. Martino di Lupari, che in questo modo era esautorata in modo evidente da qualsiasi intromissione nei confronti di quanti risiedevano nei territori soggetti all’abate commendario.
  In un periodo storico così ricco di avvenimenti troviamo a Tombolo nelle vesti di curato un tale Francesco Cabrini. Questi era stato proposto all’abate commendatario dall’anziano amministratore dell’abbazia, un monaco di Vallombrosa che rispondeva al nome di Mansueto Bottini, fin dal 1618, ma la nomina avvenne in modo diverso dai predecessori.
Dopo il distacco avvenuto nel 1425 dalla pieve luparense, il vescovo trevigiano Giovanni Benedetto aveva concesso l’erezione di un beneficio per il mantenimento del curato-parroco di circa 40 campi di terra che erano stati messi a disposizione dalla comunità tombolana, oltre al diritto di riscuotere il quartese su tutto il territorio del villaggio. Queste prerogative erano rimaste in vigore fino al 1549 quando l’abate commendatario di turno, il potente cardinale veneziano Francesco Pisani, aveva avuto la bella idea di nominare per la prima volta due amministratori laici bresciani, con cittadinanza bassanese, assegnando loro in locazione tutto il vasto patrimonio abatino.
Ritenendo che l’abbazia e il patrimonio abatino collegato fossero solo un’azienda da spremere, i due fratelli Lodovico e Marc’Antonio de Ruffis si comportarono di conseguenza. Azzerarono tutti i privilegi concessi nei secoli precedenti alle chiese dipendenti dall’abbazia, utilizzando i benefici ecclesiastici come se fossero di loro proprietà.
Esemplare a questo proposito è il caso del beneficio di Tombolo. Senza chiedere il permesso ad alcuno i due amministratori tolsero i quaranta campi del beneficio parrocchiale all’autorità del villaggio facendoli rientrare nella mensa abatina. Di conseguenza le nomine dei curati, che avevano perso nuovamente ogni prerogativa di parroci, passavano attraverso di loro con elezione simoniaca e gli investiti del beneficio dovevano firmare un contratto col quale si impegnavano a sborsare denaro in cambio della cessione provvisoria dei campi. All’inizio, nel 1549, al primo curato eletto con modalità simoniache - tale d. Girolamo Zambonini - era stato richiesto un canone annuo di 30 ducati che successivamente era salito a 75 e che al tempo del Cabrini era giunto alla bella somma di 100 ducati.
La situazione che era venuta a crearsi era insostenibile e così i tombolani, che non stavano solamente a guardare, dopo i primi tempi di titubanza, nel 1610 iniziarono a produrre lamentele presso il Senato veneziano e ad aizzare contro il commendatario il povero curato Cabrini che si trovava d’un tratto fra due fuochi opposti: le lamentele dei fedeli e l’intransigente autorità abbaziale.
A differenza dei predecessori, il Cabrini pensava di poter giocare la carta della rivolta popolare, sentendosi forte del sostegno dei parrocchiani, ma gli obiettivi che le due parti alleate intendevano raggiungere erano diversi: il curato contestava la contribuzione annuale dei 100 ducati annui dovuti alla mensa abatina per godere il beneficio interamente e intendeva rimanere in cura d’anime a Tombolo; i tombolani, dal canto loro, speravano di riottenere il possesso dei 40 campi e di avere il privilegio dell’elezione in proprio dei successivi curati, senza troppe preoccupazioni per il Cabrini, come del resto avveniva per un’altra chiesa soggetta all’abbazia, quella di S. Giorgio - successivamente intitolata prima a S. Maccario e poi S. Biagio - di Monastiero a S. Martino di Lupari.
Le prime proteste del curato furono messe a tacere facilmente con continue minacce di rimozione dall’incarico, inducendo il Cabrini a starsene buono e a continuare a pagare fino al 1629 i 100 ducati annui. Ma la successiva resistenza del sacerdote alla contribuzione si traduce nella classica goccia che fa traboccare il vaso. Il Cabrini era denunciato al vescovo e scomunicato, con la conseguente sospensione a divinis che comportava l’automatica rimozione dall’incarico a Tombolo.
Il curato, forse preso alla sprovvista da una sanzione tanto grave, cerca di recuperare terreno nel tentativo di farsi revocare la sospensione, ma non ottenendo i risultati sperati decide di saltare lo steccato, rimettendo la causa nelle mani del foro civile veneziano, sebbene spettasse al tribunale ecclesiastico il diritto di dirimere la vertenza di un prete.
Morto il cardinale e abate commendatario Lodovisi nel 1632 nel bel mezzo della disputa, gli subentra un altro cardinale conterraneo: Berlingherio Gessi da Bologna. Questi dovette occuparsi subito della questione aperta con il comune di Tombolo e il curato Cabrini scontrandosi, però, con il Senato veneziano che, oltre a digerire male la periodica nomina romana degli abati commendatari ad Abbazia Pisani, vedeva di malocchio il Gessi. I veneziani, infatti, non avevano perdonato al cardinale i suoi trascorsi antisarpiani e correva voce che l’abate fosse il mandante del tentato omicidio perpetrato nel 1607 contro Paolo Sarpi, che sortì solamente il ferimento alla testa di quest’ultimo.
Tutto ciò concorse ovviamente alla presa di posizione a favore del Senato nei confronti del Cabrini e della comunità tombolana e così, nel 1632, si decretava che il curato fosse risarcito dall’abate con 1000 ducati e che fosse reintegrato nelle sue funzioni sacre, mentre continuava a rimanere incerta la questione del possesso del beneficio composto da 40 campi trattenuti dagli abti commendatari pro tempore.
Mentre i tombolani e il loro curato sono intenti a festeggiare la vittoria, il Gessi non demorde e si prepara a ricorrere contro la sentenza veneziana chiedendo che il processo fosse rifatto e, questa volta, presso un foro ecclesiastico perché il Cabrini era un prete e non un laico. Il ricorso non ebbe seguito, nonostante le trattative diplomatiche presso il Senato veneto, dove un ambasciatore pontificio si era recato con un nuovo memoriale a favore del Gessi chiedendo che si possi dar sodisfattione al R. Cardinale. Più il Gessi si ribellava e più la questione gli si ritorceva contro e così nel 1634 dalla curia romana veniva suggerito al cardinale di rinunciare alla commenda abatina e di farsi da parte, nel tentativo di rimuovere l’ostacolo che acuiva i già difficili rapporti fra la Serenissima e lo Stato Pontificio.
Il 31 agosto del 1634, con momentanea soddisfazione delle parti in lizza, era eletto abate commendatario di Abbazia Pisani il patrizio veneto Paolo Antonio Labia.
Appena eletto il porporato ritenne giunto il  momento di far pagare a caro prezzo la vittoria dei tombolani sul predecessore, per questo motivo si mise presto all’opera. Dove non erano riusciti ad averla vinta gli avvocati del Gessi, che erano il vercellese d. Giovanni Cenna residente a Seravalle e il trevigiano Simone Orsi, nel 1635 prometteva di riuscirci la nuova squadra di penalisti creata appositamente dal commendatario veneziano.
Tanto per cominciare il Bottini fu rimandato a casa e al suo posto fu eletto come procuratore generale il nobile senatore Giovanni Francesco Labia, padre del cardinale, il quale convocò due uomini di fiducia per dirimere la vertenza che erano l’agente fondiario Antonio Raimondi e l’avvocato d. Lucio Milani.
Come se la precedente sentenza a favore dei tombolani non fosse mai stata pronunciata, il Labia intimava al Cabrini e ai massari del comune di comparire presso il tribunale della curia di Treviso per rispondere alle stesse accuse che erano state prodotte in precedenza dal Lodovisi e dal Gessi.
Il Cabrini non aveva ancora capito con chi aveva a che fare e ignorando le prime due intimazioni di comparizione in vescovado si trovò d’un tratto accusato di contumacia e spogliato di ogni prerogativa. Le bolle di nomina e di investitura del Cabrini nella prebenda di Tombolo furono, infatti, giudicate nulle e pertanto il curato fu destituito del titolo e dell’esercizio presbiterale. Per completare l’opera, il 10 maggio del 1640, il Labia chiedeva al Senato veneto di annullare la concessione del beneficio temporale assegnato al Cabrini con ducale del 26 gennaio 1631, in ossequio alla sentenza emanata precedentemente contro il Gessi. Le cose erano destinate ad andare per le lunghe, con nuovi ricorsi e guerre fra avvocati ma il 22 maggio 1640, a Venezia, si discuteva In Collegio la richiesta del cardinale, e sebbene dovesse trascorrere ancora un anno per accogliere l’istanza, il 6 maggio 1641, Proposta di novo la medesima parte, fu presa una decisione definitiva a favore dell’abate commendatario.
Si avverava così la profezia sentenziata da uno degli avvocati del Cabrini nel 1633, quando di fronte ai giudici aveva pronunciato queste parole: che cosa può fare un Prete contro un Cardinale, e quel che sarà di lui al foro […] o in Rota, ove vien ricercato che si rimetta la causa?
Al curato non rimaneva che confidare sul sostegno dei parrocchiani, sperando in un loro intervento presso il Senato e l’episcopio trevigiano, ma si sbagliava. Rimase a Tombolo ostinatamente, nonostante le minacce di scomunica richieste al vescovo dal procuratore del Labia, rimettendo l’intera questione nelle mani della curia trevigiana solamente quando fu abbandonato da tutti.
I tombolani, infatti, sentendo spirare nuovi venti avversi e temendo che la nuova vertenza potesse travolgerli brutalmente, abbandonarono il prete al loro destino sacrificandolo sull’altare della salvaguardia del beneficio parrocchiale, chiedendo solamente che fossero loro restituiti i terreni spettanti al beneficio parrocchiale. Il Senato a questo punto si defila dalla vicenda lasciando il Cabrini solo contro il cardinale.
Ormai abbandonato da tutti, nel mese di ottobre 1642 il sacerdote era convocato col suo rivale cardinale presso il tribunale dell’episcopio trevigiano per udire la sentenza definitiva pronunciata dal vicario generale Marco Morosini.
Il verdetto era scontato e il Cabrini non solo fu allontanato definitivamente da Tombolo, ma, quel che è peggio, gli fu ingiunto sotto pena di scomunica di essere bandito dalla diocesi di Treviso.
Vinceva ancora una volta la ragion di stato e il vecchio proverbio i schei e l’amicisia i orba la giustizia si riproponeva in tutta la sua cruda realtà.

La chiesa in fiamme e la statua superstite

Durante queste animate vicende che vedono contrapposte le spinte autonomiste dei tombolani e il controllo del potere da parte degli abati commendatari, si verificano altre situazioni curiose e che meritano di essere raccontate.
Nel 1623 si verifica un fatto di assoluto rilievo per il villaggio: la piccola e povera chiesa di Tombolo subisce un incendio che in breve tempo divora tutte le suppellettili e le strutture in legno, al punto che ogni cosa del resto andò in Cenere.
La chiesa era crollata e con essa era scomparsa ogni traccia del vecchio campanile. L’unica cosa ad essere rimasta in piedi era l’antica cappellina mariana posta all’interno della chiesa che conteneva il Tabernacolo del Santissimo Sacramento in Meggio, & sopra un altro Altare piccolo la Madonna Santissima, ovvero la statua della Madonna del Rosario col bambino. Essendo la cappellina l’unico elemento architettonico superstite della chiesa ed essendosi conservata incredibilmente intatta la statua lignea della Vergine, non si poté fare a meno di gridare al miracolo.
L’urgenza di ricostruire un nuovo luogo di culto induce i tombolati a diffondere immediatamente la notizia del prodigioso ritrovamento nei paesi limitrofi e anche oltre, grazie alle note frequentazioni dei numerosi mercati presenti nel Cittadellese, nella Castellana e nel Camposampierino.
Inizia così il flusso di pellegrini provenienti da ogni dove, che si recano a Tombolo per pregare e vedere il simulacro e con loro arrivano anche le prime sospirate offerte. Della raccolta del denaro si occupa la confraternita del Rosario e soprattutto il cittadellese Claudio Gatti, sovrintendente della nuova Fabrica della chiesa, nonché benestante del paese e benefattore dell’erigenda chiesa, la cui famiglia da almeno cinquant’anni riceveva in sublocazione il beneficio parrocchiale di Tombolo da parte dei giuspatroni ecclesiastici dell’abbazia di S. Eufemia.
Il Gatti rappresenta l’uomo di punta delle aspirazioni autonomiste del villaggio, per questo gli era stata affidata la sovrintendenza dei lavori di ricostruzione della chiesa, ma nel contempo è legato all’abate commendatario per almeno due motivi di forza maggiore: la chiesa da erigere apparteneva al giuspatrono e i terreni del beneficio parrocchiale concessi in sublocazione alla sua famiglia erano ugualmente appannaggio del cardinale. Per questo motivo il Gatti si comporta da moderato tentando una mediazione difficile in un periodo nel quale iniziano a manifestarsi i primi miracoli fra quanti si recano a visitare la statua della Madonna del Rosario.
Con il primo denaro racimolato, il cardinale Lodovisi ordina di ricostruire la chiesa, ovviamente contro il parere dei tombolani, i quali non vedendo di buon occhio l’iniziativa, tesa a spogliarli di ogni entrata finanziaria e ad utilizzare denaro ritenuto della comunità, pretendevano che i quattrini necessari per la ricostruzione provenissero totalmente dalle tasche del commendatario.
Probabilmente i lavori al cantiere della chiesa che si svolgono nel primo biennio 1623-24 sono resi possibili da prestiti ed elargizioni contribuiti direttamente dal Lodovisi tramite i suoi procuratori, non si spiegherebbe altrimenti la rapidità di esecuzione della scatola esterna dell’edificio con le poche elemosine raccolte in un primo tempo. Ma nel periodo successivo i lavori sembrano arenarsi per il manifesto disaccordo su chi doveva continuare a pagare l’opera.
Mentre si cerca un accordo fra le parti, nei mesi di maggio, giugno e luglio del 1624 si verificano alcune guarigioni, giudicate subito miracolose, che hanno l’effetto di incrementare vistosamente il flusso dei pellegrini e delle entrate economiche.
Nel 1629 la vertenza fra il Lodovisi e la comunità di Tombolo non è ancora approdata ad un accordo e così il cardinale decide di inviare in avanscoperta un proprio emissario, tale Aurelio Stiatico, per verificare lo stato delle cose. Quest’ultimo, in data 10 maggio 1629, invia un rapporto al Lodovisi informandolo che i lavori della chiesa erano fermi al tetto.
Mancavano tutti i lavori interni alla chiesa e in quell’anno la vecchia cappellina bruciacchiata era ancora nello stato originario e conglobata nel nuovo edificio, sebbene fossero state predisposte le nuove cappelle per gli altari da innalzare, compresa quella per la statua miracolosa. Anche la torre campanaria attendeva tempi migliori e le campane erano adagiate per terra sul sagrato assieme al battistero, ma i tombolani si rifiutano di portare a termine tutti i lavori se prima la chiesa non fosse stata smembrata dalla mensa abatina o se il Lodovisi non si fosse accollato tutte le spese per costruire una nuova canonica, la sacrestia, costituire il beneficio della chiesa e ultimare l’edificio sacro.
Il boicottaggio dei tombolani si fa serrato e il luogotenente del cardinale Lodovisi, l’agente Stiatico, suggerisce al padrone di fare pressioni sulla famiglia del sovrintendente alla fabbrica perché questi Sig. Gatti potriano aiutare assai grazie al loro ascendente sulla popolazione. Il suggerimento è subito raccolto. Così, per dare un segnale distensivo nei confronti della famiglia più in vista del paese, senza peraltro cedere di un millimetro nei confronti delle richieste dei tombolani, il cardinale proponeva di esaltare i miracoli avvenuti ricordando anche il nome del Gatti.
Ipotizzava di fare apporre nella nuova cappella, nella quale si doveva collocare l’immagine miracolosa, una grande lapide dove sia descritto il Miracolo in che tempo, &c. esprimendo il tutto bene a maggior Devotione del Populo, narrando parimente, che delle Elemosine sono concorse è stato fabricato quello S. Tempio. Alla base della lapide dovevano essere scolpiti a chiare lettere i nomi dei benefattori e cioè il cardinale, il curato e il soprintendente, ricordando a tutti gli altri, a scanso di equivoci, chi era il reale il possessore della chiesa ponendo l’Arma d’esso Signor Cardinale in una Lapide granda sopra la porta maggiore dell’edificio.

I miracoli (maggio-luglio 1624)

I primi pellegrini che giungono a Tombolo dalla primavera del 1624 per venerare la Madonna sopravvissuta all’incendio si trovano di fronte ad una situazione particolare.
Ad attenderli c’è un cantiere brulicante di operai intenti alla ricostruzione dell’edificio con addossata la cappellina bruciata e il piccolo trono con la statua lignea mariana. Lo scenario che si presentava agli occhi del visitatore doveva essere sicuramente inconsueto e poco idoneo alla meditazione, ma sicuramente ricco di suggestioni e originalità.
Del resto difficilmente si sarebbe potuto sottrarsi al curioso racconto della gente del posto che, con linguaggio colorito e sempre aggiornato da nuovi dettagli, narrava ai viandanti l’incendio del 1623 e la preservazione dalle fiamme della statua mariana.
Fra questi primi pellegrini accorsi si trova un tale Virgilio Serena, figlio del deceduto Paolo, oriundo di Venezia e paralitico. Il ragazzo che caminava con le crozole era stato a Tombolo già cinque anni prima, nel 1619, ma senza risultati per la propria salute. Ora, il 6 maggio 1624, alle ore 18.00 e a vent’anni di età, si era ripresentato in quello che rimaneva della chiesa a far oratione alla Beata Vergine che lo liberase dalla sua infirmità ottenendo la grazia.
La notizia dell’episodio si propaga rapidamente per opera dei testimoni che firmano l’atto notorio del miracolo, ossia il signor Giovanni Battista Gatti e Zuanne Burato, ai quali fa eco tutta il villaggio di Tombolo dando inizio all’accorrere generalizzato da ogni dove di persone ammalate.
Due giorni dopo, il giorno 8 maggio, è il turno di Maddalena, figlia di Bartolomeo Cristofari da S. Martino di Lupari, cieca dell’occhio sinistro - zancho- da sei mesi e aggravata da forti dolori.
Passano altri quattro giorni e la guarigione riguarda Franceschina, moglie di Lunardo Bottacini, che dimorava a Sant’Anna Morosina dove il marito svolgeva la professione di giardiniere nel parco del procuratore di S. Marco, Angelo Morosini. I testimoni dichiarano che la donna non poteva moversi dalla carega senza crozole ma fattasi portare à cavallo et menar in chiesa [...] è risanata che camina come si puol vedere.
Trascorrono ancora una volta quattro giorni e il 16 maggio sono risanate altre tre donne. La prima, Apollonia di Tomasi, proveniva da Cartigliano ed era ritenuta posseduta dagli spiriti, la seconda, Bona, moglie di Giacomo Castellan, era giunta a Tombolo dalla Pieve di S. Maria Nascente di Castelfranco V. con le crozole p[er] spatio d’anni dodese. La terza, Santina, moglie di Giacomo Giraldin da Cogno, ma residente a Gaianiga, è risanata essendo stroppiata di fronte a molto popolo c[he] vide.
Nei successivi giorni di maggio ottennero delle grazie i seguenti personaggi: Libera, moglie di Polin Serato da Villa del Conte, ritenuta indemoniata; Iseppo Loregiola da Persegara, stropiato di tutta la sua vita che non poteva mover gli brazi; Valentin Catozo da Monastiero di S. Martino di Lupari, havendo patito p[er] quatro in cinque ani mal di orina; Antonio, figlio di Bartolomeo Trentin da Caselle d’Altivole, p[er] occasione d’esser cascato giù d’un moraro, restò stropiato d’una gamba c[he] gl’andò fuori molti pezi d’ossi c[he] andava co[n] le crozole; Antonia, moglie di Giuseppe Broeto da Cittadella, essendo obsesa dalli spiriti.
I miracoli a ripetizione che susseguono per tutto il mese di maggio non accennano a diminuire nel successivo mese di giugno, come si rileva da un elenco di guarigioni inviate alla curia vescovile di Treviso dal curato Cabrini il 7 luglio del 1624.
Da queste note si viene a sapere che dal 7 giugno al primo luglio furono pubblicamente riconosciuti come miracolati i seguenti casi: Cattarina, moglie di Vendramin Bragagnolo da Villa del Conte, per occasione di male continuo di febre et anco mal di sangue qual li durò mesi nove; Zuanne, figlio di Pier’Antonio Montelato da S. Palè essendo obsesso dalli spiriti già ani cinque; Orsola, figlia del decesso Bastian di Schalchi da Bassano obsessa dalli spiriti già an[n]i dieci; Donà[ta], figlia del defunto Giacomo della Rizza, tesaro de pani in Bassano in contrà di campofior havendo già dui an[n]i perso grandemente la luce de gl’occhi c[he] non poteva figurare le persone due pertiche lontano, ne non poter far il suo mestiero; Pellegrin, figlio del defunto Tomio Felippeto da Breganze essendo già cinque anni opresso da malle nella cosa destra dove è restato stropiato; l’eremita Bartolomeo Clemente stà nella Chiesa di S. Bortolamio fuori di Bassano migliaro uno, infermo delle gambe p[er] occo[r]se di doglie già anni cinque; Uliana, moglie di Giacometto Scandolara da Lovari di S. Martino di Lupari, p[er] occasione d’essere caduta giù d’una teza restò stupiata [sic!]; Francesco, figlio di Marchioro da Orsenigo sul trivisano p[er] occa[sio]ne di malatia restò stuppiato c[he] portava le crozzole; Maria, figlia di Zamaria Meneghetto da Villarazzo, obsesa dalli spiriti; Gierolima, moglie di Valentin Cattarella, stà alla spianade app[ress]o il capitello delle doi mote de Treviso essendo stata in malattia tre anni c[he] tal occ[assio]ne andò co[n] le crozole; Caterina, figlia del decesso Pasquale Cavaso da Sivigliano d’Istria, semicieca.
Tanti casi straordinari non potevano non suscitare clamore anche nelle alte sfere e così fin dall’inizio del mese di giugno del 1624, in piena emergenza miracoli, la curia vescovile di Treviso decide di istituire un vero e proprio processo canonico per verificare le veridicità dei fatti.
Sfilano in tal modo di fronte al vicario generale e al notaio curiale decine di testimoni provenienti dal Padovano, dal Trevigiano e dal Vicentino, ai quali sono poste molte domande in latino che ottengono scontate risposte in volgare seicentesco. Tutti i convocati, e sono molti, dichiarano che le attribuzioni miracolose sono fondate, descrivendo nei minimi dettagli tanti singoli episodi spesso curiosi.
La tendenza ad attribuire spesso ad entità malefiche il proprio stato di salute ricorre con prevalenza, come pure traspare in continuazione la suggestione e l’arcana credenza popolare nel cercare rimedi in benedizioni, pozioni, letture astrologiche, stagionali e affini. Osserviamo alcuni casi a riguardo.
La quarantasettenne posseduta Apollonia di Tomasi, ad esempio, dichiara che prima di giungere a Tombolo no[n] potevo dormire ne mangiare, cantavo, scherzavo, ne mai havevo riposso, et in chiesa particolòar[men]te no[n] mi potevo aquietare, se il prete no[n] veniva lui co[n] la stola et mi quietava. Decide quindi di farsi condurre davanti alla Madonna di Tombolo e qui diedi uno schiaffo à un prete, et un altro à un frate, et [...] cascai in terra p[er] morta, ne mi ricordo altro [...] et da quella volta in qua, sia Iddio lodato, mi so[n] sempre sentita bene.
Anche Franceschina, moglie del giardiniere del procuratore di S. Marco, Angelo Morosini, che era giunta à marito sei anni prima nella contea morosina da Venezia non ha dubbi sul fatto che la propria infermità fosse di origine demoniaca: poiché molti stimavano ch’io fossi stregata io p[er] cio mi feci segnare dal R[everendo] p[rete] Ales[sandr]o da Cittadella il quale mi diede certo oglio bened[ett]o et certo vino et mi recuperai al quanto. Del resto era evidente che solamente nel colmar della luna io mi sentiva meglio, durando l’estate, et nel ultimo della luna io mi sentivo peggio, et malissimo io stavo poi in d[ett]i tempi cioe quando la luna era quasi declinata nei tempi dell’inverno.
Analoga situazione si presenta per Antonia da Cittadella guasta cioe ispiritata [...] da piccola in suso.[ La donna dichiara che il suo problema era l’havere dentro quel tentasion ò quell’inspirasion [...] di sentire nel cuore gran passione, et mi veniva pensier più tosto di guardare gentilhuomini, et altri, che di vedere à levare il signore nella Messa. Prima di sposarsi sentiva già di essere spiritata, per questo si era fatta benedire da sacerdoti di Villafranca, Camisano, Piazzola, persino da due padri capucini li quali mi segnarono, et mi dicevano se tu sei un spirito parla, et altre cose, che[e] no[n] mi ricordo, ne io rispondevo, ne gridavo tuttavia non aveva dubbi sul suo stato anche perché era stata a Padova sotto l’Arca di S. Antonio, dove mi pareva di sentire una gran puzza, et no[n] dicevo altro se no[n] che mi cavassero fuori di là p[er]ch[è] no[n] potevo star in q[ue]lla puzza. Giunta nella chiesa di Tombolo il rettore Cabrini scuperse il mio spirito ch[e] gli promise di uscire il sabbato santo delle Pentechoste [...] facendo gran strepito e gridando restai liberata.
Da altri casi, invece, si raccoglie l’esperienza quotidiana della sofferenza dalla quale si cerca di liberarsi in qualsiasi modo.
Valentino Catozzo da Monastiero, che soffriva di qualche affezione alle vie urinarie da qualche anno, al dire di un suo amico quando voleva orinare si sentiva à creppare, et orinava un giosso alla volta. Pur di liberarsi dell’infermità era disposto a tutto, aveva, infatti, promesso 40 scudi oppure due cavalli a chi avesse trovato quella cura che nemmeno i medici di Venezia erano stati in grado di individuare. Quello che non poteva la medicina tradizionale poté la Madonna tombolana havendo fatto dir la Messa, et portato il candelotto, senza dubbio risparmiando anche sulle originarie promesse in danaro ed equini.
Disposta a tutto era anche la storpia Bona Castellan da Castelfranco la quale avendo da 12 anni il piede sinistro tanto curto ch[e] non mi arivava ne anco al mezo della gamba destra aveva deciso di farsi operare a vivo dal barbiere Lorenzo il qual mi cavò anco l’osso del piede sinistro costringendo la donna ad utilizzare per sempre le crozzole. Dopo il miracolo verificatosi a Tombolo, Bona poté camminare servendosi solamente di un bastoncello che mostra a più riprese ai curiosi che presenziano all’interrogatorio nell’ufficio curiale di Treviso.
Fra i miracolati c’è anche un caso penoso, quello della girovaga Catterina da Sivigliano, senza fissa dimora. Questa aveva il marito marinaio imbarcato su una galera e avendo sentito dire che la nave doveva approdare a Venezia di ritorno da un lungo viaggio, si era diretta nella città lagunare nella speranza d’incontrare il coniuge, ma inutilmente perché la notizia si era rivelata falsa. Si era pertanto diretta a Scorzè e nei paesi limitrofi, ricevendo alloggio saltuario nell’ospedale per i poveri di  Noale e in qualche stalla. Qui venne a sapere della Madonna miracolosa di Tombolo, trovandosi quasi cieca ad entrambi gli occhi, probabilmente a causa di un’infezione tifoide febbrile prodotta dalle petechie contratte nell’ospedale di scorzè ch[e] mi havevano data p[er] morta.
Il racconto di Caterina è particolarmente interessante, oltre che per la sua situazione personale, anche perché documenta un secondo incendio occorso all’erigenda chiesa che si verifica la domenica 2 giugno 1624. Mentre la donna era intenta a pregare con altra gente di sera, ecco, all’improvviso, levarsi le fiamme, probabilmente a causa di qualche candela di troppo accesa di fronte all’altare della Madonna. I presenti si danno alla fuga mentre altri cercano di spegnere le fiamme e un manipolo di fedeli raggiunge la statua portandola fuori dell’edificio a spalle, salvandola per la seconda volta dalle fiamme in un anno: tutti corsero p[er] occasione del fuoco io parim[en]te corsi et quando hebbero portata fuori di chiesa d[ett]a imaggine io la baciai, et cominciai à vedere meglio.
Ormai per questa statua si era disposti a tutto e nessuno osava dubitare del suo potere portentoso dando origine ad una secolare tradizione che è giunta fino ai nostri giorni.

 Conclusioni

Dopo i lunghi interrogatori documentati dalla curia vescovile e la verifica diretta dei presunti miracolati da parte delle autorità preposte, il processo canonico diocesano che indagava sull’attività taumaturgica della Madonna di Tombolo si concluse deponendo a favore dei poteri soprannaturali del simulacro. Per questo motivo la fama della statua continuò ad aumentare e a persistere anche nei secoli successivi, anche se dopo il periodo maggio-luglio del 1624 non si verificarono altri casi di guarigioni documentati.
Sul piano personale di quanti ottennero la guarigione appare evidente l’importanza rivestita dall’immagine, ma l’intera vicenda ebbe notevoli ripercussioni anche sul piano politico ed economico. Da una parte, infatti, la comunità tombolana si sentì più forte di fronte alle intromissioni degli abati commendatari di S. Eufemia, interpretando i miracoli come una sottolineatura dell’identità e della particolarità del villaggio, dall’altra permise di racimolare in tempi relativamente brevi il denaro necessario per rilanciare la piazza di Tombolo. Nonostante gli attriti sorti per la gestione del denaro, è evidente che il complesso architettonico monumentale della piazza di Tombolo (chiesa, campanile, canonica) poté essere eretto solamente grazie alle elemosine e soprattutto ai lasciti testamentari e ai legati da messe che ebbero origine dall’estate del 1624.
L’unico perdente in tutta la vicenda fu il buon curato Cabrini, il quale, com’è s’è visto in precedenza, dovette pagare il prezzo della ragion di stato ed essere eliminato dalla scena storica tombolana sebbene si fosse dato tanto da fare per conservare il posto.
Oggi la statua vestita della Madonna è ancora custodita all’interno della chiesa parrocchiale settecentesca e forse pochi tombolani ne conoscono la storia. Quasi tutti però sanno che anche il cappellano Giuseppe Melchiorre Sarto fu intimamente legato all’immagine. Oltre a venerarla, infatti, il futuro Pio X alla fine di ogni messa domenicale faceva cadere il velo che celava l’immagine per impedire ai fedeli di uscire prima dalla chiesa, ben sapendo quanto i tombolani temessero lo sguardo dell’immagine secolare.

Note



[1] Per le vicende accennate rinvio a C. Miotto, P. Miotto, Il territorio di Villa del Conte nella storia, Comune di Villa del Conte 1994, p. 578, passim e soprattutto P. Miotto, Tombolo e la sua antica comunità cristiana, Limena 2008.


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