Paolo Miotto
Un’amante intraprendente.
Un’amante intraprendente.
La relazione d’Isabetta Rocco col procuratore veneto Angelo Morosini (1672-1690)
in Alta Padovana, 4, Gennaio 2005, pp. 73-79.
La ricerca archivistica raramente permette di ricostruire storie di donne particolari, specie quando non hanno natali illustri. A questa regola sembra sfuggire una ragazza di Sant’Anna Morosina che, nella seconda metà del Seicento, riesce a ritagliarsi uno spazio sociale ed economico di prim’ordine divenendo la favorita del Procuratore di S. Marco Angelo Morosini.[1]
La storia di Isabetta è documentata soprattutto negli atti vergati dal notaio e cancelliere di Sant’Anna Antonio Ciani (1670-1687), dai quali è possibile ricavare tutta una messe di dati particolarmente curiosi per ricostruire alcuni momenti della prolungata storia amorosa fra Angelo Morosini (1629-1692), allora procuratore di S. Marco e ambasciatore presso la corte reale di Polonia, e Isabetta Rocca. La storia è interessante per vari motivi, non ultimo il fatto che all’epoca l’avventura sembrava non destare alcuno scandalo pubblico, anzi, e questo nonostante la nascita di due figli naturali riconosciuti dal Morosini e liquidati opportunamente, senza alcuna opposizione ufficiale della consorte di sangue blu e della prole legittima.
La storia di Isabetta, figlia di Michele Rocho e di Lucietta, inizia in una famiglia di piccoli possidenti giunta a Sant’Anna Morosina verso la metà del 600’. Il padre Michele apparteneva allo stuolo di fittavoli alle dipendenze del patrizio Angelo, che a Sant’Anna aveva fatto erigere un sontuoso palazzo, con vasti parchi e un ordinato nucleo urbano, dando visibilità all’omonima contea assegnata ai suoi antenati da Pandolfo Malatesta nel 1508. La madre Lucietta, invece, probabilmente poco soddisfatta della condizione sociale ed economica del marito, aveva iniziato a frequentare il Morosini introducendo progressivamente anche la figlia nel palazzo dominicale.
Dopo la morte di Michele, avvenuta nel 1672, Isabetta e la madre invece di essere allontanate dalla contea per fare posto a nuovi lavoratori, sono subito poste sotto il protettorato personale del Morosini, mentre il fratello Bortolamio Rocco è autorizzato a rimanere nel villaggio di Sant’Anna, preferendo però andare a vivere in casa della moglie Lucia Tonin, dopo averla sposata nel 1666. Per comprendere la situazione che si crea al momento del decesso di Michele Rocco, è importante soffermarsi brevemente sulle scelte testamentarie di quest’ultimo. Michele, infatti, sentendosi vicino alla morte compie un gesto significativo e carico di conseguenze: non potendo fidarsi del cancelliere e notaio della contea Giacomo Forlani, perché stipendiato e quindi confidente di un Angelo Morosini invaghito della moglie e della figlia, aveva preferito dettare il proprio testamento al parroco di Sant’Anna d. Pietro Brugni.
Non poteva prevedere che questa scelta avrebbe scatenato l’ira del cancelliere e creato problemi agli eredi. Tutti i residenti della contea morosina erano, infatti, moralmente obbligati a servirsi per i loro atti del notaio e cancelliere scelto dal Morosini, che rogava all’interno del palazzo del conte, e pertanto era puntualmente informato di quanto avveniva. Scegliere un notaio o un personaggio equivalente, ma diverso dal cancelliere della contea, significava compiere un gesto di insubordinazione rispetto all’autorità costituita, con tutti i risvolti problematici che ne potevano derivare.
La scelta testamentaria di Michele Rocco è chiara, tenere fuori dalla sua vita, con una sorta di protesta silenziosa, chi aveva contribuito a sottrargli gli affetti più cari.
Defunto Michele, il cancelliere Forlani non perde tempo per istruire il processo e rendere nullo l’atto testamentario, procedendo alla convocazione e all’interrogatorio separato dei quattro testimoni che il Rocco aveva convocato segretamente alla dettatura del proprio testamento nella casa canonica (il fante di Cittadella Zuanne Cittain, Zamaria Mazzonetto, Bernardin Zenson e Bortolomio Frasson). I quattro personaggi testimoniano concordemente che la disposizione del defunto coincideva con il testamento redatto dal parroco, ma il cancelliere, ferito nell’orgoglio per essere stato estromesso dalle proprie funzioni dal defunto a favore del sacerdote, non intendeva avvallare il testamento, tanto da indurre il Morosini ad intervenire di persona e a porre fine alla questione.
Il 2 giugno del 1672, infatti, è lo stesso giuspatrono ad incaricare il cancelliere della contea Giacomo Forlani, “ad instanza di Mad(on)na Lucieta R(elict)a q(uondam) sod(ett)o Michele, come usufruttuaria, et di Bortolo figliuolo del sod(ett)o come herede”, di redigere l’inventario “de Beni mobili” del defunto avvallando ogni sua decisione. Il meticoloso inventario degli oggetti posseduti in vita da Michele, evidenzia anche la consistenza della dote di Lucietta e alcuni oggetti della figlia, nulla in confronto a quello che avrebbe saputo racimolare Isabetta qualche anno dopo.
Pochi giorni dopo, il 17 giugno, è sempre il Morosini a fare stimare, alla presenza del proprio “figliastro”, la restituzione della dote a Lucietta, ponendo un problema fondamentale: a chi si riferiva il patrizio menzionando l’anonimo “figliastro”? Di certo non poteva essere Zuanne Narciso, che sarebbe nato undici anni dopo dalla relazione fra Angelo Morosini e Isabeta.
L’unica risposta possibile, data la costante presenza nei documenti legati al testamento di Michele e l’esplicito riferimento alla stesura del documento dotale anche da parte di Bortolamio Rocco, era che proprio questi, l’erede universale di Michele, fosse figlio naturale, ma non legittimato d’Angelo Morosini. In altre parole, non solo Isabetta, ma anche la madre Lucietta aveva avuto figli naturali dal Morosini, solamente la prima però sarà in grado di fare legittimare la prole. Si spiega in tal modo l’immediata protezione economica e giuridica assicurata alle donne dopo la morte di Michele da parte del patrizio.
Negli anni immediatamente successivi al decesso del Rocco, le due donne continuano a frequentare assiduamente il Palazzo Morosini, pur risiedendo nella loro abitazione. Dalla relazione fra Angelo Morosini e Isabetta, agli inizi degli anni Ottanta, nascono due figli: Zuanne Narciso e Angioletta, entrambi riconosciuti dal giuspatrono, che continua a beneficiare l’amante con doni e servizi, favorendone la scalata sociale ed economica in un ambiente dove solo le protezioni potevano permettere ad una donna di modeste origini di farsi spazio. Sui motivi che possono spiegare la scelta del Morosini per due donne popolane, si può solamente ipotizzare che dovessero essere particolarmente attraenti o avere caratteristiche singolari, mentre la legittimazione del figlio maschio doveva servire a garantire una discendenza, poiché fino allora il Morosini aveva avuto solamente figlie femmine.
Dopo la nascita dei due figli e il loro riconoscimento, la scalata economica e sociale di Isabetta si fa più importante e spedita.
Nel 1684, il patrizio “hora Ambasciator Estraordinario elletto dalla Serenissima Rep.ca di Venetia alla Corona dell’Illustrissimo Rè di Polonia Giovanni” decideva di donare all’amante una casa, con magazzino e 14 campi posti a Mottinello “per gratitudine alla Sig.ra Isabetta Rocca (...) che con ogni fedeltà, et amore all’Eccel(entissi)ma sua Casa aveva servito”. L’anno successivo, per ricambiare il dono ricevuto, è Isabetta assieme alla madre ad offrire in omaggio al Morosini la casa “da coppo” fino allora posseduta a Sant’Anna, assieme ad un campo e mezzo di terra posto a Villa del Conte, nella contrada del Cavagnolo.
Per tutta risposta il patrizio accetta il dono e fa redigere al cancelliere Ciani un documento nel quale si stabiliva che se qualcuno della Casa Morosini avesse osato, anche in futuro, molestare le due donne, i beni offerti sarebbero dovuti ritornare alle oblatrici.
Nel 1686 le elargizioni in moneta sonante sostituiscono interamente quelle troppo formali e documentabili derivate dalle donazioni d’immobili e così Isabetta può iniziare una campagna d’acquisti nella zona rosatese, dove aveva diversi interessi lo stesso Morosini.
Il piano degli acquisti prevede l’acquisizione sistematica di case e piccoli lotti di terreno da concedere poi in affitto, per creare una rendita vitalizia sicura. Per la cifra di 200 ducati, la Rocco aveva già acquistato nel 1680 cinque campi dalla signora Francesca Manta, vedova del cittadino cittadellese Nicolò Trevisan, che aveva comprato la tenuta il 22 dicembre 1653 dai fratelli Marco e Antonio del fu Zamaria Bressan, detti Corsin, da S. Croce (di Campese?). Ora, nel 1686, lo shopping fondiario riprende alla grande. In quell’anno, infatti, Isabetta spende 100 ducati per l’acquisto di una casa in muratura “con altre muraglie” e tre quarti di campo da Silvestro Volato del fu Cristoforo da Rosà, 35 ducati per una concessione d’acqua ad uso irriguo, della durata di cinque anni, dal signor Tadio Vicco, che le serviva per irrigare per 14 ore la settimana un appezzamento di terreno situato a Rosà,180 ducati per acquisire una casa e tre quarti di campo situati nello stesso villaggio, nella contrada Bressani, da Silvestro Vallotto fu Cristoforo.
In seguito Isabetta monetizza gli acquisti stipulando contratti d’affitto livellari, generalmente della durata di 29 anni. I contraenti sono: Iseppo Marcadella del fu Nicolò da Rosà, che riceve in locazione per 5 anni e al prezzo di 45 lire annue, un casone e 1 campo di terra situati a Rosà, nella contrada del Confine con possibilità di affranco conclusivo di 800 lire venete; Iseppo Pandi e i fratelli Nicolò e Zamaria Baggio del fu Battista da Rosà, ai quali Isabetta affitta la sua “nuova casa” e le adiacenze poste a Rosà, nella contrada Bressani, per 10 ducati annui. Nel 1687 la donna acquisisce un casone, il fondo agricolo di 1 campo e mezzo e 2 stanze in muratura da Lazero Zanon del fu Iseppo, il tutto posto a Mottinello, per saldo di un debito di 244 lire e 5 soldi che lo Zanon aveva molto probabilmente contratto con il Morosini.
Nel frattempo anche Bortolomio Rocco, il “figliastro” del Morosini, sembra avere un occhio di riguardo da parte del padre naturale, come si evince dall’atto di battesimo della figlia Cattarina, impartito da un sacerdote convocato appositamente e alla presenza di una madrina di rilevo, tale Malgarita, figlia del signor Bortolo Rizzon, agente di Ca’ Morosini. Gli atti di battesimo successivi dei figli di Bortolomio non annoverano più la presenza esplicita dei Morosini, ma continuano a distinguersi per i personaggi presenti al sacramento.
Tutto sembra andare per il meglio fino agli ultimi anni del 1690, quando la posizione di Isabetta inizia a scricchiolare: non è chiaro se il Morosini si sia stancato dell’amante, oppure, più verosimilmente, se sia la donna ad esigere delle garanzie per una posizione sociale certa, perché il patrizio l’accontenta.
Alla fine del 1689 il Morosini cerca un partito adeguato per la donna e lo individua nel nobile padovano Giovanni Tergolina, personaggio appartenente all’omonimo casato che aveva casa dominicale a Tergolina di S. Giustina in Colle e a Padova. Nei primi giorni del gennaio 1690, con gran gesto di magnanimità, Angelo Morosini fa predisporre la principesca dote della sposa, che contrae matrimonio a Sant’Anna il 15 gennaio dello stesso anno, essendo testimoni il signor Giuseppe Fosco, fattore di Ca’ Morosini, e il farmacista di Sant’Anna Silvestro Palderi, con la probabile presenza, non documentata, del Morosini e dei due figli naturali. Qualcuno potrebbe chiedersi se in tutta la vicenda il Tergolina avesse potuto avere voce in capitolo, dopo tutto era evidente che si trattava di un matrimonio di convenienza, utile soprattutto al Morosini e all’amante, ma di fronte a circa 3.799 ducati di dote caduti dal cielo, che andavano sommati ad altri 490 ducati di gioielli donati dall’amante, per il nobile padovano non era certo il caso di indugiare in sottigliezze; chissà quanti altri aspiranti avrebbero potuto farsi avanti pur di entrare sotto la protezione del numero due della Repubblica veneta e nel contempo arricchirsi a dismisura per il solo fatto di impalmarne la concubina!
Termina così l’avventurosa scalata di una donna che seppe approfittare della propria avvenenza e spregiudicatezza oltre ogni attesa, continuando lo stesso ad influire sulla vita dei propri figli naturali e non solo, nonostante il suo trasferimento a Padova, dove il Tergolina sperava di tenerla fuori della portata del Morosini.
Per la figlia Angioletta Morosini, piazzata giovanissima, nel 1688, fra le mura del monastero di S. Maria Nova di Vicenza, Isabetta aveva ottenuto da Angelo Morosini una dotazione di tutto riguardo: “un Tacon d’Argento Romano grande con quattro piedi, Bacilli doi mezani fatti a Fiorami d’Argenta, Dodeci piadanelle dorate d’Argento d’Argenta (sic!), Una secchia d’Argenta, Un Orinal d’Argenta, Quattro Vasi d’Argento fatti a sande, Quattro sottocope d’Argento con l’Arma morosina, Quattro Candelieri alla Romana con tre ballete, Un Cadin, e brocca sotto tondo fatto à coste dorate Siperfilli”.
Per il figlio Zuanne Narciso, invece, non servivano particolari ingerenze materne perché il Morosini lo aveva legittimato, reputandolo a tutti gli effetti figlio proprio. Per questo motivo il nobile cercava in ogni modo di riversare su di lui le proprie attenzioni, sperando di non dare troppo nell’occhio, ma finendo ugualmente nei pasticci. Ritenendo di passare inosservato, fin dal 9 maggio 1684 il patrizio aveva, infatti, nominato procuratore l’avvocato veneziano Felippo Felippi, incaricandolo di acquistare, come prestanome, la “carica di gastaldo dell’Ecc(ellentissi)ma Procuratia de’ Ultra”.
Trattandosi di una carica pubblica già assegnata, la manovra doveva essere riservata e necessariamente fraudolenta. Si trattava di convincere a suon di ducati il legittimo investito a cedere l’incarico, mettendo a tacere le bocche con generose mance. A fatto compiuto qualcosa però va storto, qualcuno parla troppo e la giustizia veneziana si mette in moto fino ad arrivare all’avvocato Felippi che, messo alle strette, deve difendersi pubblicamente dall’accusa di avere tramato per impossessarsi della carica pubblica per interesse personale, facendo il nome del Morosini.
Un mese dopo, il 22 agosto 1690, il patrizio è costretto a scoprire le carte, ammettendo pubblicamente di avere affidato l’incarico al Felippi di acquistare la carica di gastaldo dal legittimo investito, tale Pietro Colombo del fu Giacinto, pagandola una cifra enorme: 2.701 ducati e 9 soldi, ai quali andavano aggiunti 37 ducati di spese e una tangente di ben “100 Onze d’Argento lavorato di Regallo.” Alla richiesta dei motivi che l’avevano indotto a procedere segretamente, il patrizio non può nascondere il fatto che tutta l’operazione era servita per garantire una rendita vitalizia al figlio naturale Narciso, assegnandogli la gastaldia delle procuratie, ossia degli uffici di piazza S. Marco dove si trovavano gli uffici più importanti della Serenissima.
Ora, che tutto era scoperto e il denaro era stato speso, per evitare intromissioni dei parenti, il Morosini era costretto a dichiarare pubblicamente che si sarebbe riservato incondizionatamente per tutta la vita, le rendite della carica del gastaldo, sperando in tal modo di salvaguardare l’originario desiderio a favore di Narciso. Indubbiamente il fatto dovette suscitare non poche chiacchiere a S. Marco e altrove, concorrendo al progressivo isolamento del patrizio anche da parte dei parenti, che si sentivano macchiati e minacciati non tanto dalla relazione del nobile con una plebea, circostanza allora piuttosto frequente, quanto dall’incomprensibile legittimazione di quei figli.
Sintomatica, a riguardo, è la decisione, più tarda di un secolo, del genealogista Malipiero di interrompere la sequenza familiare del Morosini fino alle due figlie legittime, ignorando la discendenza derivata dal legittimato Narciso. Come a volere rilevare che in linea di principio era meglio considerare estinto il ramo d’Angelo Morosini piuttosto che dargli un seguito tanto disdicevole per la mentalità dell’elite aristocratica veneziana. La decisione d’Angelo è in ogni caso irrevocabile: Zuanne Narciso, l’unico figlio maschio avuto, sarebbe stato erede collaterale delle due figlie Lucrezia e Giustiniana, anche se solo per un breve periodo i discendenti di Narciso avrebbero posseduto, nella seconda metà del ‘700, il palazzo della contea morosina.
APSAM= Archivio Parrocchiale di Sant’Anna Morosina
BMV= Biblioteca Marciana di Venezia
Note
[1] Il presente saggio, opportunamente modificato e adattato, è ambientato all’interno delle vicende storiche della contea di Sant’Anna Morosina, documentate nel recente volume C. MIOTTO, P. MIOTTO, San Giorgio in Bosco. Una costellazione di villaggi fra identità particolari e storia comunale collettiva, Comune di San Giorgio in Bosco, Abbazia Pisani 2004 e con più precisione in P. MIOTTO, Dai nobili Morosini ai nostri giorni. Sant'Anna Morosina, Parrocchia di Sant'Anna Morosina 2009
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