lunedì 23 luglio 2012

ARTICOLO IV.
Della Vendemmia.

            Potrebbe forse ad uno spirito meno attento sembrare, che poche cose vi sieno da avvertire intorno alla vendemmia, come quella che non consiste, che nella semplice raccolta dell'uva; pure una operazione ella è questa di grande importanza, che molto può influire, quando sia fatta a dovere, sulla rettificazione de' mosti del milanese, ed intorno alla quale si può commettere degli enormissimi sbagli, atti a far deteriorare il vino. Primieramente si ha da procurare che la vendemmia sia fatta in tempo caldo ed asciutto di maniera che non si colga mai l'uva, se non quando sia svaporata dalla sua superficie ogni straniera umidità. Se la stagione, come molte volte succede, fosse ostinatamente piovosa, si attendano per lo meno le giornate e le ore, in cui l'uve sieno alla meglio asciugate. Ne' giorni eziandio di bel sereno è necessario aspettare che il sole abbia tolto dal di sopra dell'uva l'umido della rugiada. Le ore più opportune sembrano esser quelle da terza fino ad un'ora prima del tramontar del sole, come quelle in cui qualunque corpo esposto all'aperto è men pregno di umidità. Un punto egli è questo da non dover essere per verun modo trascurato. Senza le indicate cautele non è mai da sperarsi un vino di buona qualità. Le gocciole della rugiada o della pioggia s'insinuano pe' vasi assorbenti sparsi a tutta la superficie della buccia, i granelli si gonfiano, lo zucchero si stempera, il mosto sovrabbonda di acqua, lo spirito rettore si disperde, ed il vino che quindi se ne forma riesce insipido, scolorito, acquidoso, di poca durata, e facilissimo a corrompersi. Il che tanto più facilmente succede a' vini della Lombardia Austriaca, come quelli che provengono da luoghi già per se stessi umidi.

Vendemmia nel mondo antico
            Un'altra avvertenza molto necessaria è quella di attendere, che l'uva sia giunta al grado della sua piena maturità. Niente di più facile a distinguersi quanto l'uve mature, da quelle che punto non lo sono. Eccone i segni per conoscerle. 1. Allorché le foglie della vite acquistan giallume, e cominciano in parte a cadere; il che è indizio che il succo della pianta siasi di già arrestato, e che gli acini né traggono, né abbisognano più di nutrimento. 2. Quando il picciuolo de' grappoli, di verde ch'era prima, si è cambiato in color bruno. 3. Quando il grappolo è pendente. 4. Allorché sì il grappolo che gli acini con facilità si distaccano. 5. Quando il sugo, avendo perduta la sua corrodente acerbità, si è renduto dolce, saponaceo, glutinoso, né è più atto ad istupidire i denti. Il concorso di tutti questi indizj annunzia essere giunto ormai il tempo di vendemmiare.

            Non lasciamo però d'avvertire che, siccome il grado di perfetta maturità consiste in un punto preciso, ed essendo cosa difficilissima, per non dirla affatto impossibile, che tutta l'uva d'un intera piantagione giunga contemporaneamente a questo punto; così noi non arriveremo mai a conseguire un vino di ottima qualità, finché seguiremo l'uso inveterato o, dirò meglio, l'abuso di spiccare indistintamente tutta l'uva della pianta in una sola volta, e di farne una sola raccolta. Come un mescuglio di grappoli d'indole e di carattere cotanto opposto, una parte de' quali è verde ed immatura, l'altra muffita, putrescente, e di cattivo odore, non distruggerà la perfezione di quella, ch'è nel vero punto della sua maturità, sola capace di produrre un buon vino?[1] Da questa ineguaglianza di principj, da questa disordinata congerie non può nascere che una fermentazione la più irregolare e confusa. Per entro alla stessa massa di fluido alcune parti si troveranno già avanzate alla fermentazione acetosa, ed altre ancora alla putrescente, mentre alcune non saranno che al principio della fermentazione vinosa. Quindi la depravazione del vino, che se ne rimane esposto per tal guisa all'azione de' prodotti alcalescenti. Per evitare questo danno in Sciampagna ed in Borgogna si costumano tre differenti raccolte d'uva, che si fanno immediatamente l'una dopo l'altra, la prima de' soli grappoli maturi, la seconda degli acerbi ed immaturi, e la terza de' putridi ed ammuffiti, facendo di queste tre raccolte tre diverse bolliture. Il metodo è buono; ma quel che vengo ora a suggerire è migliore, unisce alla facilità un molto considerabile vantaggio, ed è altresì di minore dispendio. Consiste questo nel fare due vendemmie separate a qualche intervallo di tempo[2]. La prima de' soli grappoli maturi, quando una gran parte di essi sia giunta a questo grado; la seconda poi, passati alquanti giorni, quando il restante dell'uva si trovi essa pure perfezionata e matura. Questa nuova maniera, per quanto imbarazzante possa sembrare all'occhio del villico, il quale, standosene attaccato agli antichi suoi pregiudizj, odia tutte le salutevoli novità, ella non dee per verun modo sgomentare l'animo dell'uomo industrioso. Dal dividere in due tempi separati la vendemmia ne siegue che si coglie tutta l'uva in istato di maturità; il prodotto è raddoppiato, il mosto è tutto buono, ed in alcuni casi la spesa è minore, in quanto che i soli domestici possono talvolta bastare ad una dimezzata raccolta, senza l'aggravio di aggiungere nuovi operaj.

La vendemmia nel medioevo
            In qualche paese d'Italia, ed anche nella Svizzera si costuma separare il grappolo dalla vite con l'unghia del dito pollice: più comunemente si adopera un coltello ricurvo, od una falciuola. L'una e l'altra maniera deesi riguardare come poco conveniente; attesoché si agita sempre con più o meno violenza la vite, si scuote il grappolo, molti granelli, tra quali i più maturi, vanno per terra, si fanno cadere le foglie entro la corba dell'uva, né si prende la briga di estrarle; il che serve ad aggiungere acido ad acido, e quindi ad accrescere l'imperfezione del mosto. Si prevengono tutti questi disordini col servirsi di cesoje o forbici; e l'operazione riesce anche più comoda e più spedita. Tra il numero delle cose che meritano essere da noi proscritte si è anche l'abuso di quelli, i quali per uno spirito di male inteso risparmio, pongono nel medesimo tino l'uva che vanno in più giorni vendemmiando. Da queste successive sopra imposizioni ne siegue, che la prima vendemmia, aspettando l'ultima, si riscalda troppo, specialmente stando esposta all'ardore del sole, prende il gusto de' raspi, lo spirito aromatico se ne esala, comincia ne' granelli pesti l'emozion fermentante, la fermentazione quindi rimane interrotta, il che è in seguito la cagione del guastamento del vino.


ARTICOLO V.
Della maniera di pigiar l'uva.

            Prima di indicare la maniera creduta la più acconcia per la pigiatura dell'uva, è necessario dilucidare una quistione, che tra i fabbricatori de' vini resta tuttavia indecisa, intorno a cui tante e sì differenti cose sono state dette, secondo il vario pensare degli uomini, e lo scioglimento della quale può divenire di una massima conseguenza per la pratica. Si tratta di sapere, se prima di pigiar l'uva, sia meglio separarne i raspi, indi pigiare i soli acini, e porre a fermentazione insieme col mosto le sole buccie senza i raspi. Il costume universale, almeno ne' nostri paesi si è che, fatta la vendemmia, si pigia l'uva, senza punto separarne i raspi, e poi si uniscono e raspi e buccie a fermentare insieme col mosto[3]. Questo uso ha trovato de' seguaci, ed alcuni Scrittori anche in mezzo ai lumi del secolo decimo ottavo si sono impegnati a volerlo sostenere. Spicciolando l'uve, si perde, dicono essi, una quantità considerabile di mosto. All'estremità di ciascun picciuolo, da cui si distacca il granello di uva, vi resta una, o due gocciole di liquore; ed il prodigioso numero di queste gocciole giunge a costituire un volume non tanto indifferente. Egli è verissimo che per questa via una data porzione di mosto resta scemata dalla massa totale; ma una porzione assai maggiore di vino si viene a perdere, allorché si pongono i raspi a fermentare entro al mosto, a motivo della molta sostanza spiritosa, che da essi viene assorbita; sicché si perde una quantità di mosto, separando i raspi dall'uva; ma si perde una quantità assai maggiore di vino, lasciando di separare i detti raspi, e ponendoli a fermentare col mosto[4]. Volendo io ridurre a calcolo la differenza di queste due perdite, ho istituito il seguente confronto. Presi una determinata quantità di raspi, che avea separati dagli acini avanti la pigiatura dell'uva, ed evendoli da se soli sottoposti alla fermentazione senza unirli ad altro mosto, ma solamente mescolati ad un po' di acqua, dal vinello, che ne ottenni, ricavai, mediante la distillazione, grani sei di spirito rettificato. Sottoposi nel medesimo tempo alla distillazione un eguale quantità di raspi, che aveano bollito insieme col mosto, ed erano quindi inzuppati di vino, e da questi ho conseguito grani 37 di spirito rettificato fino allo stesso grado; dal che si deduce, che col separare i raspi dall'uva, si ottiene un risparmio sei volte maggiore.

Pigiatura dell'uva nel medioevo
            Ma quello, che maggiormente interessa l'animo benefico degli Illustri Accademici, non è tanto la maggior quantità del vino, che si può conseguire, quanto il sapere se, lasciando i raspi per entro al mosto che fermenta, il vino che si ottiene acquisti pregio, oppure ne senta detrimento. Per risolvere questo punto in una maniera degna di questo spirito filosofico, che forma oramai il carattere del nostro secolo, e per togliere ogni ombra di dubbietà a tutti quelli, che hanno l'incarico di queste faccende, conviene prima esaminare la qualità del sugo, che contengono i raspi. Spremendo questi sotto al torchio, ne sorte un liquore acido, crudo, ed astringente, il quale sottoposto a tutte le prove della Chimica si manifesta per un vero acido vegetabile. Ora mescolando una sostanza pregna di un tal fluido per entro al mosto, nel bollor della fermentazione, non potrà a meno di non comunicargli una gran parte della sua acidità. Di ciò ne abbiamo una prova manifesta, spremendo i medesimi raspi, dappoiché hanno bollito insieme col mosto: allora non si estrae più da essi acido vegetabile, si estrae liquore spiritoso. Quindi è manifesto, che frammischiare i raspi al mosto è lo stesso che accrescere al mosto medesimo la dose dell'acido sviluppato. Sicché ci rimane solo a rintracciare se convenga o no l'insinuare entro al vino un sugo di tal qualità. Egli è cinque anni, dacché ogni anno io vo istituendo degli esatti confronti su questo punto, dai risultati de' quali io mi credo ormai in diritto di poter conchiudere, che il mescolare i raspi col mosto reca sempre qualche detrimento al vino, e che il maggiore, o minore pregiudizio, che da essi vien recato, è relativo alla diversa qualità de' mosti. Ecco uno dei varj esperimenti, che ho eseguiti in questo genere. Trascelsi quattro porzioni di mosto di qualità affatto differenti, cominciando dal primo, il quale era copiosissimo di materia zuccherosa, e discendendo gradatamente fino all'ultimo, il quale abbondava per eccesso di acido sciolto, di mucilaggine, e di acqua. Ciascuna di queste quattro porzioni le divisi in due parti uguali, in maniera che una fermentasse unitamente a' suoi raspi, e l'altra senza; procurando altresì, che il mosto di questi otto recipienti rimanesse esposto, durante il tempo della fermentazione, alla medesima temperatura, e che tutte le altre circostanze fossero perfettamente eguali. Il mosto più inferiore di tutti, che avea fermentato co' raspi, mi diede un vino, che a capo di sette mesi se ne passò alla corruzione; e quello della medesima qualità, che avea fermentato senza raspi, dopo un anno era nel suo genere buono, toltane la sua propria naturale acidità. Il mosto più zuccheroso diedemi un vino assai prelibato, con la sola differenza, che quella porzione che avea fermentato co' raspi, dopo un anno e due mesi, avea perduta la sua dolcezza; dovecché l'altra porzione, che fermentò senza raspi, a capo di questo termine, era tuttavia dolce, e quindi meno spiritosa. Similmente le altre due porzioni medie, confrontando la dose mescolata co' raspi con quella che n'era priva, mi fecero rimarcare una differenza analoga alla qui indicata. Sicché da tutta questa serie di prove tante volte replicate con dei risultati sempre uniformi ne derivano per giusta illazione le seguenti utili verità. 1. Che quando il mosto è carico di principio zuccheroso, col farlo fermentare unitamente a' raspi, il pregiudizio che ne risulta è assai leggiero, che anzi sembra derivarne qualche sorta di vantaggio. 2. Che trattandosi anche di mosti assai zuccherosi, la maniera più propria per averne del vino eccellente, non è quella di farli fermentare co' loro raspi; ma bensì di separarneli, ed aggiungervi in vece quella dose di tartaro, che sia proporzionata alla quantità della sostanza zuccherosa[5]. 3. Che i mosti ignobili, acquidosi, sopraccarichi di acido, e difettosi di zucchero, facendoli fermentare co' raspi è lo stesso che accrescere la causa della loro rovina, e rendere il vino sempre più disposto alla corruzione, ed al guastamento. 4. Che i mosti della Lombardia Austriaca, quelli specialmente, che si raccolgono verso la parte meridionale, essendo di quest'ultimo carattere, cioè, troppo copiosi di acqua, e di acido onfacioso, devono a tutto costo essere posti a fermentare senza i raspi, risguardando come abuso intollerabile la pratica opposta, ove sia tuttavia in vigore.

            Alcuni per togliere i raspi dal mosto costumano di pigiare prima l'uva, e poscia con un rastello comune agitando la massa delle vinacce, ne separano i raspi, facendoli venire al di sopra, e poi gli levano con le mani. Io non giudico affatto condannabile questo metodo, se non forse per la ragione, che ho accennata più sopra, cioè, perché i raspi inumiditi dal mosto, ne portano via una maggior quantità. Ma io non lascio di suggerire un altro metodo, che sembra migliore, che con felice riuscita viene da altri eseguito, e che, a preferenza di qualunque altro, dovrebbe essere universalmente adottato. Sopra l'apertura di un tino si adatta una specie di grattugia di filo di ferro, costruita a foggia di vaglio, ossia, di rete, i cui fori sieno tanto ampj, quanto comodamente vi possano passare gli acini dell'uva. Fermata questa alla circonferenza di un tino, si prende il grappolo pel suo manico, o picciuolo, si netta prima dagli acini immaturi, guasti, e corrotti, indi strisciandolo con la destra sopra la grattuggia, e premendolo alcun poco colla sinistra, in due, o tre colpi il grappolo è spoglio, e gli acini caggiono da se stessi entro il tino. L'operazione è delle più spedite, in breve tempo si sgranella un tino d'uva, e attorno ad esso si possono impiegare le mani più inabili delle femmine e de' fanciulli.

            Mi si domanderà forse se insieme co' raspi sia cosa lodevole il separare dal mosto anche i fiocini, ossieno le buccie. Trattandosi de' vini del Milanese, io rispondo di no; e che il partito migliore è quello di rimuovere i soli raspi, e porre i fiocini a fermentare insieme col mosto. Imperciocché essendo siffatti vini per lo più scoloriti, e rimanendosene la parte colorante del mosto immediatamente applicata alle buccie dell'uva, questa, che durante la bollitura, viene disciolta dallo spirito ardente, dà una tinta più carica al vino, ed il rende più pregevole nel commercio, e più appariscente sulle mense. Oltr'a che, siccome la materia colorante va ordinariamente unita alla parte resinosa; così col mescolare i fiocini al mosto, i vini riusciranno non solo più coloriti, ma anche più resinosi; e quindi più corroboranti, e robusti. Finalmente le buccie sollevandosi in alto nel tempo della fermentazione, formano quella crosta, la quale impedisce la dissipazione delle parti spiritose, e volatili; per verità assai poco, ma anche il poco apporta giovamento. Alle fin qui addotte ragioni s'accordano perfettamente gli esperimenti, co' quali mi sono appieno assicurato, che bollendo il vino insieme co' fiocini, acquista più nerbo, che quando n'è privo, il che principalmente è dovuto alla sostanza resinosa unita alla materia colorante.

Pigiatura nel Settecento
            Sgranellata l'uva, e rigettati i raspi[6], come del tutto contrarj alle mire, che ci siamo prefissi, si viene alla pigiatura degli acini. Molte sono le maniere, onde ne' diversi paesi viene eseguita una tale operazione. La più comune è anche la più condannabile, come per lo più in tutte le cose suole accadere, per disgrazia dell'umanità. Questa è di pigiar l'uva co' lordi e schifosi piedi del contadino bifolco, il cui sudore non può a meno di comunicare una qualità nociva al vino; molto più se il pigiatore è di costituzione malsana. La traspirazione è la via più ordinaria, per cui si comunicano le ree affezioni, ed i perniciosi miasmi. S'ingannano a partito coloro, i quali credono, che il vino, bollendo, si purghi da ogni lordura; mentre gli effluvj animali non sono né sì grossolani da depositarsi colle fecce, né sì spiritosi, e volatili da sublimarsi colle schiume. Mi sovviene che trovandosi, anni sono, per accidente dell'aglio in contatto con l'uva, il vino che ne fu fatto, conservò per qualche tempo l'odore di aglio[7]. Oltre a tutto questo ne segue, che premendo l'uva co' piedi, non si giunge mai a schiacciare affatto ogni granello, e a far uscire tutto il succo contenuto tra i ripostigli delle sue cellule, e quindi in massa si viene a perdere una quantità considerabile di vino. Altri pigiano in differenti modi le loro uve: chi si serve d'una mazza di legno; chi d'un grosso pistello; alcuni adoperano il badile, o la vanga: molti fanno uso d'un istrumento formato a due cilindri scanalati, posti orizzontalmente, che si fanno girare nel medesimo senso; e molti in fine si servono di varie altre macchine più o meno complicate e composte, le quali tutte hanno più o meno i loro difetti. L'uso del torchio, ch'è de' più antichi, è altresì quello, che va più esente da imperfezioni, quello, che riesce più facile vantaggioso ed economico, e che bramerei vedere comunemente introdotto fra noi. L'unica avvertenza, che dee avere chi fa uso di questa utile macchina, è quella di dover separare, e mettere a parte quel mosto ch'esce dalle ultime sforzate pressioni, come quello che di sua natura è il più acido di tutto il rimanente. Imperciocché, quantunque sia vero che in tutta la sostanza dell'uva, anche la più matura, si contenga dell'acido sviluppato; pure in maggior copia, e d'un indole più attiva è quello, che si annida tra le cellule delle buccie. Ciò si rende manifesto coll'assaggiare separatamente il mosto delle prime e quello delle ultime torchiature; dacché questo secondo avrà un sapore costantemente più piccante ed acerbo. Similmente immergendo una carta cerulea entro al mosto di ciascuna compressione, si vedrà tingersi la carta d'un rosso sempre più vivo, quanto più avanzate sono le medesime compressioni[8]. Meno importante sarebbe questa precauzione colle uve di Brianza, o di qual siasi altro luogo, ove abbondano di materia zuccherosa, e con quelle uve altresì, che industriosamente saranno state appassite, delle quali altri si servono per fare de' vini prelibati. Il mescolare in questi casi le ultime spremiture riesce anzi di vantaggio; perché scarseggiando tai mosti di acido, ch'è il principal promotore che dà impulso alla fermentazione, con questa mescolanza si riducono a giusto equilibrio i principj del mosto, e se ne ottiene un vino più gagliardo e spiritoso. Ma avendo in riflesso i mosti delle umidi pianure, i quali abbondano anzi che no di acido sviluppato, la surriferita separazione si rende necessaria. Né ci reca ella frattanto alcun discapito, mentre col mosto delle ultime pressioni si fa un vino per uso de' lavoratori da essere il primo consumato.

            A quella guisa che abbiam veduto essere necessario il separare i raspi dagli acini dell'uva prima di pigiarla, giovevolissimo sarebbe altresì, per la stessa ragione il poterne separare anche i vinacciuoli, ossieno i semi, che stanno rinchiusi entro agli acini; attesoché non possono a meno di non comunicare al vino parte della loro astringente amarezza[9]. Ciò facilmente si potrà eseguire, o col sottoporre nell'atto della pigiatura un vaglio, il quale dando passaggio al mosto, ne trattenga i semi; oppure dopo pigiata l'uva, mescolando le vinacce entro a poca quantità di mosto, ed agitandolo ben bene, finché i vinacciuoli, ch'erano dispersi per entro alla massa, se ne vadano al fondo.


[1]    Hannovi, non altrimenti che fra gli uomini, e fra le bestie, anche tra gli esseri vegetabili le malattie di contagio. La corruzione è per esso loro di un carattere comunicante. Una pesca, una mela, un grappolo d'uva, putrefatti che sieno, comunicano la rea qualità alle altre frutta contigue.
[2]    Se due sole raccolte suggerisco in luogo di tre, cioè non è che per evitare la taccia di troppo minuzioso: egli è per altro evidente il vantaggio maggiore che se ne verrebbe a ritrarre.
[3]    Oltre al mescolamento de' raspi, havvi anche quello de' granelli putridi od immaturi, delle foglie, de' pezzi di sarmenti, che cadono in quantità tra l'uve de' vendemmiatori negligenti, che non hanno la precauzione di levarneli.
[4]    Mi si dirà, che potrebbesi evitare l'uno, e l'altro discapito, col pigliar l'uva insieme co' raspi, e poi separarneli in appresso, senza porli a fermentare unitamente al mosto. Questo riflesso può risvegliarsi in mente a quelle persone, che parlano teoricamente, e che non hanno veruna pratica. Imperciocché chi si trova da vario tempo esercitato in queste faccende, potrà agevolmente comprendere, che col separare i raspi dopo la pigiatura, essendo in allora tutti aspersi di mosto, ne traggono seco una maggior quantità, che non farebbero allorché fossero stati separati prima.
[5]    L'acido del tartaro opera più lentamente, ed è più proprio dell'acido de' raspi, a compiere il magistero della fermentazione. Contemporaneamente alle qui riferite sperienze ne feci un'altra, col togliere ad una egual porzione dello stesso mosto i raspi, aggiungendovi in vece una conveniente quantità di tartaro. Il vino, che ne ottenni, fu senza paragone alcuno assai più spiritoso, e robusto di quello, che avea fermentato co' raspi.
[6]    Quando si voglia trar profitto da tutto ciò, che ci si presenta, neppure i raspi si dovranno rigettare, come cosa superflua. Mescolando con essi un poco di uva, anche d'inferior qualità, si può ottenere un vinetto da consumarsi subito tra i lavoratori delle campagne; oppure servirsene per fare aceto.
[7]    Essendo la diffusione degli odori, in ragione del quadrato delle distanze, massima deve essere la copia degli effluvi, che ricevono i corpi, allorché si trovano in contatto alla sostanza esalante.
[8]    Ma questa separazione del mosto più sforzato domanderà il villico, che brama essere istruito, non viene ella ad essere affatto inutile, subito che noi dobbiamo mescolare in seguito le buccie insieme col mosto? L'impeto dell'azion fermentante estrarrà tutto l'acido dalle buccie, il quale mescolandosi al liquore produrrà quegli effetti, che noi cerchiamo di evitare. Dunque tanto più, ripiglio io, si rende necessaria questa separazione. Se la violenza della fermentazione è capace di spremer l'acido dalle buccie, dunque spremiamolo avanti col torchio, e separiamolo dal rimanente del mosto. Del resto, io devo qui far rimarcare, che l'impeto della fermentazione non ha mai tanta forza da estraere tutto l'acido dalle buccie, specialmente quando non si pratichino le ammostature, del che ne abbiamo una prova  dal gusto acido, che serbano tuttavia le medesime buccie anche dopo la fermentazione, quando il loro acido non ne sia stato spremuto, e separato avanti.
[9]    Questi vinacciuoli separati dall'uva lavati, ripuliti, e rasciugati al sole, possono divenire un capo di economia domestica molto interessante; mentre sottoposti al torchio, forniscono un olio, il quale è buonissimo per uso delle lucerne, esso dà una fiamma più chiara dell'olio di linosa, e dura un terzo di più dell'olio comune. Solo si dee avvertire di consumarlo finché è recente; imperciocché ho provato, che dopo due anni arde con difficoltà, e dopo i tre non arde più; il che probabilmente deriva dell'assorbimento, che va facendo dell'ossigeno col quale avendo l'olio molta aderenza, e facile ad essere strappato dal seno dell'aria.

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